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L’anno che sta arrivando (e quello che se ne va)

Sarà forse l’ansia del freelance, un po’ di strizza e grande speranza nel futuro, sarà che quando si invecchia rimorsi e rimpianti si mescolano e tutto sta nel rimanere a galla, sarà che le feste mi rendono malinconica e la malinconia è un abito avvolgente e caldo, ma non riesco a fare a meno dei bilanci.

Il 2023 è stato un anno di limature, per arrivare a fine mese, per dormire mezz’ora in più, per rientrare nei vecchi jeans, per riuscire a consegnare nelle scadenze, per provare a fatturare di più, per tagliare le spese, per trovare del tempo per me.

“La vita è aggiunta fino ai 40 anni, dopo è sottrazione”, dice un illuminato Sylvester Stallone e non me la sento di dargli torto.

Quest’anno si è portato via un pezzo di famiglia, lasciando un vuoto incolmabile. Ma è stato anche l’anno in cui ci siamo sposati, scalzi in riva al mare, in una festa così bella che ci verrebbe quasi voglia di replicarla ogni anno.

È stato l’anno in cui, dopo troppi anni, ho finito il mio nuovo romanzo. Romanzo che però non siamo riuscite a vendere a un editore e chissà se vedrà mai la luce.
Un anno in cui ho viaggiato poco, ma in cui ho visto tanto mare.
Un anno in cui ho lavorato poco, ma erano tutti progetti bellissimi.
Un anno in cui sono diventata bravissima a parlare inglese.
Un anno in cui sono tornata in radio, in Tv e a parlare in pubblico.
Un anno in cui ho ascoltato molta opera lirica.
Un anno in cui mi sono chiesta cosa verrà dopo, perché tra pochi giri di boa ci saranno i cinquanta e io me l’ero sempre immaginata diversa la vita.
Un anno di senso di colpa, per quello che vedo e leggo, per l’impotenza di non poter cambiare le cose, per la fatica di arrancare sapendo che siamo comunque molto più fortunati di buona parte di mondo.

Cosa mi auguro per l’anno nuovo?
Più tempo con le persone che amo, più viaggi, più serate fuori, più soldi, molti più soldi (magari – lo dico? – uno stipendio fisso). Mi auguro la salute e che tutti in famiglia mantengano più a lungo possibile memoria e ricordi. Mi auguro di avere voglia di scrivere altre storie, nonostante tutto. Mi auguro di ritornare ad avere fiducia nel mio paese e nel futuro. Mi auguro che la sottrazione già in atto mi tolga solo le cose superflue. Mi auguro di essere così rivoluzionaria da non sentire mai più il bisogno di apparire, ma il privilegio e la leggerezza di sparire. Mi auguro che la vita sia bella e gentile, che ci siano sempre caffè, buoni libri, la musica, gli amici, il vino, le serie TV, l’entusiasmo dei bambini, gatti da accarezzare e mattine passate a dormire senza la sveglia che suona.
Mi auguro ci sia libertà di scelta.

Buona fortuna a tutte e tutti.

Ce. La. Puoi. Fare.

Per la mia laurea, nel lontano 2002, avevo chiesto in regalo una Reflex. Una Canon EOS analogica, ché il futuribile era di là da venire, con un bell’obiettivo. Una discreta macchinetta, perché dopo anni di viaggi strampalati e di scatti rubacchiati con piccole compatte e metri e metri e metri di pellicola, avevo deciso che da grande avrei potuto fare la fotografa. Che ne sai? Tutti mi dicevano hai occhio, dovresti lavorarci su, poi te ne vai nei paesi arabi con la tua laurea che come ti è venuto in mente di prenderla e ci fai dei bei reportage.

La maneggiavo come se fosse di cristallo.

Un paio di settimane dopo me ne sono andata a Napoli. Ho fatto una sosta di pochi giorni a Roma. E mi sono fatta fregare la macchina. Subito. Un borseggio. Oh, succede. A Roma ti fottono anche se sei napoletano. Ma a me non avevano mai rubato nulla. Allora i sensi di colpa che hai quando ti succede qualcosa di brutto, potevo evitare? è stata colpa mia? potevo essere più scaltra? se avessi fatto? se avessi cambiato strada?

Ho letto questa cosa come un segno. Demotivante. Io sono la regina del pessimismo. Quando mi porgono un bicchiere, io non penso nemmeno se è mezzo vuoto o mezzo pieno, tanto sono sicura che contiene acqua non potabile. Mi farà male al pancino.

Mesi dopo, al mio compleanno, gli amici avevano fatto una colletta per ricomprarmi la reflex. Ma io avevo già abbandonato l’idea di fare la fotografa. Sono fatta così. Mi scoraggio. E lascio perdere.

Sono sempre stata brava, anche molto, molto brava, in tante cose, lo studio, il teatro, il coro, le lingue, la cucina, la matematica, il ragù, ma non credo di essere mai stata eccellente in niente. Se nasci con una voce incredibile, una bellezza incantevole, una presenza scenica sublime, un portentoso orecchio musicale, un quoziente intellettivo da genio, una mano da pittore, i piedi da atleta, lo capisci subito il tuo destino.
E anche se non sei il numero uno, prima o poi arriva il momento in cui scegli cosa fare. E ti impegni. E ci provi.
Non succede a tutti. Anzi, molte persone si lasciano vivere, ragionano per obiettivi minimi: lavoro, casa, famiglia, macchina, vacanza e vivono vite degnissime e soddisfatte, senza l’ansia di un progetto maggiore. Però quasi tutti coltivano sogni, che abbandonano per incapacità, pigrizia, maturità.

Io ho abbandonato molti sogni per paura, altri perché la realtà mi ha presa a schiaffi, altri perché mi stavano stretti e altri ancora me li sono proprio dimenticati.
Certe volte, in passato, mi sono circondata di persone entusiaste e brave. Forse erano i vent’anni. Forse mi avevano conosciuta con un’altra luce negli occhi, non lo so, ma quelle persone lì, alcune, mica tutte, anche se per brevi momenti, avevano creduto in me. E allora io mi ero sentita speciale. E quelle volte avevo pensato davvero che sarei diventata una grande attrice o una grande antropologa o una grande scrittrice o una grande donna.

Poi, certo, c’è stata la vita, i lutti, i debiti, la precarietà, le scelte sbagliate, i problemi in famiglia, le malattie, i traslochi, gli amori finiti. A un certo punto la ricerca di un sogno sembrava una perdita di tempo. Lavorare, guadagnare, sopravvivere. Ho cambiato così tante vite e case e città, che a un certo punto mi sono ritrovata così diversa che non mi riconoscevo nemmeno più.
E quando è diventato tutto un po’ più difficile, superati i 30, con contratti in scadenza, fatture non pagate e mutuaffitto, anche le persone intorno a me sono cambiate.
Così, negli ultimi anni, quando le cose andavano male, in moltissimi mi dicevano che dovevo accontentarmi. Accontentati, riduci le aspettative, lima i sogni. Mi spiegavano dove sbagliavo, così convinti di avercela fatta loro, solo perché, magari, erano riusciti a coprire la loro mediocrità con un accumulo di flebile ricchezza. Quando cresci, i sogni perdono valore se non ti rendono danaroso.

Allora l’Italia andava male, però per le persone negative intorno a me ero io, io, con la mia incapace indolenza, con la mia pigrizia, con la mia chissàcosa, chiticredevidiessere, a non funzionare. Quindi taglia, riduci, togli.

L’insicurezza è un virus letale. Se non lo curi subito, con una bella dose di faccia tosta, diventa cronico. E l’insicurezza ti fa circondare di brutte persone. Che sono tipo vampiri, che ti succhiano energie e forza, ma meno fichi dei vampiri, hanno la pancetta, la cellulite o la forfora. In sintesi, mi sono circondata di stronzi.

Mi hanno fatta sentire di nuovo borseggiata. Hai solo puntato troppo in alto. Solo quello.

E così ho rallentato. Rallentato. Rallentato. Poi mi sono fermata. Scrivere, viaggiare, stringere mani, fare colloqui, inviare progetti, fare brainstorming. Tutto fermo. Solo piccole cose, senza alzare gli occhi, come dicevano loro, riduci, ridimensiona, ti insegniamo noi come si fa. Un’ombra.

Epperò mi ha salvato l’imprevisto. Quello lì, l’uomo che non aspettavi ed entra nella tua vita e ti dice che tu sei di un altro pianeta e chi ti ha detto che non puoi volare ti ha mentito. Quell’uomo che ti insegna la filosofia di Stallone e ti dice ogni volta che cadi devi rialzarti, alzati, combatti anche per 14-15 round, perché non importa se stai prendendo a pugni un campione, tu ce la puoi fare. Anche se perdi, ce la fai. Lui, che quando tu gli dici non sono capace, non l’ho mai fatto, non ci riesco, lui non ti abbraccia e compatisce, ma ti dice fallo e basta, muoviti, sei invincibile.
Funziona. Non da un giorno all’altro. Ma funziona.
Ricostruire l’autostima, allontanare la negatività, riprendere i sogni che non è troppo tardi, ritrovare l’energia.
La procrastinazione, mi fotte, su quello devo lavorare, ma funziona.
A volte i sogni si realizzano solo se c’è qualcuno che ha davvero fiducia in te. Un po’ come Babbo Natale, che se ci credi, esiste. Un po’ come il Punto G.

Sia chiaro, non ho realizzato ancora nulla, però ho capito una cosa importante. Bisogna puntare in alto. Anche bluffando. In alto.

Ce. La. Puoi. Fare.

E vaffanculo le brutte persone!

Il prossimo anno voglio essere felice

Non piacerebbe anche a te, certe mattine, che una voce fuori campo riassumesse il tuo passato come prima dei telefilm quando “nelle puntate precedenti…”?

Avevo voglia di raccontare, come ormai faccio da dieci anni, e di condividere gli ultimi dodici mesi, ma mi rendo conto che quest’anno ho fatto già tantissimi bilanci che ho vissuto un capodanno ogni trimestre. Ogni cambiamento è stato un inizio: i viaggi, gli addii, i successi e gli insuccessi, il lavoro perso, gli amici ritrovati.
Stamattina ho la sensazione che non sia l’ultimo giorno di qualcosa, ma l’ennesimo giorno meraviglioso e complicato di questo reality che si chiama vita.
Gli anni meno faticosi passano più in fretta. Il 2013 è stato forse un periodo di transizione. Sto meglio, molto meglio, rispetto a un paio di anni fa in cui tutto è andato a pezzi ed era impossibile anche solo alzarsi la mattina.

Ho lavorato poco. Il 2012 avevo guadagnato la metà esatta dell’anno precedente e quest’anno ancora un terzo in meno. Molto di quello che ho guadagnato non mi è stato ancora pagato. Vivo di prestiti, risparmi e speranza e, se non fossi così incosciente, se avessi una famiglia, dei figli da mantenere o anche solo un’automobile, se non fossi pronta ad arrangiarmi, sarebbe molto più drammatico. Ma siamo quasi tutti su questo barcone sgangherato e ci facciamo forza e sappiamo che qualcosa prima o poi cambierà. E se è vero che non sempre abbiamo fatto abbastanza per lavorare di più e meglio, spesso abbiamo dato il massimo senza avere un ritorno.

I giorni che non ho lavorato, ho scritto. Tanti articoli, tante lettere, un romanzo nuovo e un romanzo breve che ho amato molto, ma i lettori meno. Poi mi sono presa una pausa. Per cambiare. Perché questi libri che ho pubblicato non sono io. Non sono Daniela. E forse non sono nemmeno tanto Dania. Sono piena di storie, ma storie diverse, linguaggi differenti, personaggi che mi somigliano molto di più, che dicono parolacce, che viaggiano in seconda classe, che indossano anfibi e vanno a fare la spesa al mercato.
Allora ho deciso che basta, che voglio scrivere una storia mia.
Quindi niente terzo capitolo della saga Chanel, niente glamour, niente amore.
E pensavo che sarebbe stato tutto più facile, invece è un casino e ho la testa che esplode e la pagina bianca davanti agli occhi che è come una ferita sanguinante.
Il tempo che passa, ormai, è scandito solo dalla persistenza delle mie pagine vuote. Fa male.

Prima o poi anche i libri mi verranno pagati (i diritti arrivano con molta calma) e inizierò a vivere questo tempo china sulla tastiera come un vero lavoro. Forse allora sarò più motivata, forse le parole usciranno più in fretta e più disciplinate. O forse no.

Ho viaggiato, non quanto vorrei, ma ho preso gli aerei giusti e ho passato dei giorni di tale serenità che mi sono chiesta perché non averlo fatto prima, sorvolare l’Oceano, riunire la famiglia, visitare i posti che ho sempre desiderato, mangiare tutto, ma proprio tutto quello che mi va.

Certi mesi mi sono scivolati addosso, perché non c’era niente da conquistare, altri sono stati delle battaglie, infinite.

L’amore è stata la cosa più complicata (non è sempre così?). Due passi avanti, uno indietro, addii, ritorni, promesse e lacrime, baci lunghissimi, fughe, parole scritte e tante parole non dette, canzoni, film, accuse, dichiarazioni. Colpi di scena.

È stato come avere di nuovo vent’anni, vivere le relazioni alla giornata, non sapere se domani sarà ancora tutto bello, avere il terrore di progettare insieme.
Ormai siamo arrivati fin qui, non possiamo tornare indietro, non possiamo buttare tutto, ce lo siamo guadagnato, conserviamolo, proteggiamolo.

È stato un anno disordinato, che mi ha insegnato che gli altri non possono sempre diventare alibi per la nostra negligenza, che se vogliamo cambiare, dobbiamo farlo e basta, noi da soli, perché tutti possono cambiare. Mi ha insegnato che c’è sempre una seconda occasione e, se non dovesse esserci, ci sarà un‘altra occasione, diversa ma non meno importante. Mi ha insegnato che le persone belle devi tenertele strette, a costo di superare la pigrizia e l’egoismo e la paura, perché il tempo passa e cancella tutto e l’unica cosa che conserverai per sempre sono i compagni di viaggio. Mi ha insegnato che i soldi e il successo e l’apparenza e la bellezza possono essere importanti, ma non a costo di non riconoscerti più, di modificare i tuoi sogni; che tra un mese dimenticherai la tua ospitata in TV, ma ricorderai per sempre le serate a ridere con gli amici, la coda lunghissima per  salire in cima a un grattacielo per guardare il tramonto, le canzoni urlate durante un concerto in uno stadio pieno di gente.

Mi ha insegnato che non c’è un arrivo, che la strada è infinita, che possiamo fare una sosta, per stanchezza, per rabbia, per pigrizia, ma poi dobbiamo rimetterci in viaggio, noi che siamo i nomadi del nostro destino.

Il prossimo anno voglio essere felice.
È un proposito folle, credete che non lo sappia?
Ma voglio metterci pazzia nel futuro.
Voglio scrivere il mio romanzo, voglio stare solo con le persone belle e tenere tutti gli altri a distanza, i gatti e le volpi, i falsi, gli approfittatori, le galline tutte tette e sorrisi e niente cervello, gli insicuri che ti succhiano il sangue, gli invidiosi. Voglio viaggiare di più, ma molto di più, voglio guadagnare abbastanza da poter tirare il fiato, voglio dire no a tutte le cose che non mi piacciono, le serate con i dress code, i finti amici, i locali con la lista all’ingresso, le cene in cui “voglio parlarti di un lavoro” e invece è solo marpionamento, le comparsate che chissenefrega, le foto fatte solo per dire io c’ero, le competizioni non richieste, gli insulti gratuiti di troll e stalker, quelli che “non ti fai mai sentire” e non ti chiamano mai.
Voglio stare con te, non solo il prossimo anno, ma tutta la vita, a costo di inseguirti e poi fuggire, di cambiare e poi tornare indietro.
E poi dormire un anno intero senza prendere sonniferi e mangiare senza sensi di colpa e sorridere solo se ne ho veramente voglia e non avere sempre l’ansia spaventosa di perdere tutto.

Voglio arrivare a fine anno e dire che meraviglia! Hai visto che non era impossibile? Che ce la potevo fare?
E se non ce la dovessi fare, poi ci sarà l’anno successivo e quello dopo ancora.
Non ci fermiamo mai.
Non voglio fermarmi mai. Ho le scarpe giuste, il fiato allenato, la borsa leggera e la colonna sonora perfetta.

BUON ANNO NUOVO.

Blogfest 2013. La mia gente

Negli anni ho imparato che il tempo di recupero dalla Blogfest è di tre giorni.

Durante il primo sbadigli, provi a riprenderti dalla sbronza e e cerchi di ricordare se hai fatto cose (più) imbarazzanti (del solito) e se quando sei andato via hai salutato tutti. Fai il censimento dei gadget (pochissimi, quest’anno) e aggiorni i social network con settemila status in cui comunichi che stai andando via.

Il secondo giorno è quello in cui ragioni su come è andata la manifestazione, su cosa hai trovato interessante e cosa meno. È il giorno in cui leggi tutti i post scritti e guardi le foto e ti rivedi e pensi “meno male che quest’anno ho tenuto sempre gli occhiali da sole. Almeno sembro carina”. Poi partecipi a qualche polemica sui premi, sui VIP che mammamia come se la tiravano, su quelli che però sembravano gentenormale, sui blogger che hanno avuto successo e quelli che no, su chi ha avuto la faccia tosta di ripresentarsi e su quelli che “ma davvero ci sono andata a letto?”. È la giornata in cui a Gianluca Neri fischiano così tanto le orecchie che ha l’impressione di essere stato abbandonato in un cantiere della Salerno-Reggio Calabria.

E il terzo giorno ci sono io qui, sul divano, a bere litri di caffè e a tirare le mie somme.

Sono una blogger anziana. Bloggo da 10 anni, dal lontano 2003, quando ancora c’erano i modem analogici a 56k e i post erano solo testuali e la maggior parte di noi era su Splinder (e quando mi ci sono iscritta io, non eravamo nemmeno 10mila). Sono stata una di quelle che ha visto crescere la rete, ha visto nascere le prime blogstar, ha partecipato ai primi raduni in cui si scopriva per la prima volta che faccia avessero i nickname con cui conversavi nei commenti dei post, molto prima che nascessero i social network.

Quelli della “mia generazione” non avevano modelli di business, non pensavano e nemmeno immaginavano che il blog potesse essere uno strumento per far soldi o un lavoro. All’epoca guardavamo con sospetto e disprezzo quelli che mettevano banner pubblicitari sui domini e che ti invitavano a fare clic. Noi eravamo puri, integerrimi, convinti di partecipare a un cambiamento più profondo. Pensavamo di riscrivere il concetto di comunicazione, di libertà d’espressione, di democrazia partecipata. Molto prima che un blogger già strapopolare per la TV creasse un partito politico.

I blog erano palestre di scrittura, laboratori di linguaggi, spazi di denuncia e posti in cui fare amicizia. Fino a quando Facebook non ci ha “costretti” a mettere nome, cognome e faccia, ci sentivamo supereroi nascosti dalla maschera dello pseudonimo e dalle nostre parole, convinti di appartenere a un mondo che non sarebbe mai diventato mainstream, tenendolo segreto, perché gli altri, quelli “fuori dalla rete”, non avrebbero capito. Chi della vecchia guardia non ha, almeno una volta, mentito su dove ha conosciuto un caro amico o un fidanzato? Era l’epoca in cui, se dicevi “ci siamo conosciuti su internet”, la reazione era di terrore e disgusto, come se avessi detto “ci siamo conosciuti in un parcheggio scambista di Pinerolo”.

Il web ci sembrava uno spazio nostro, in cui potevamo provare a cambiare le cose e a renderle migliori.

Poi sono arrivati tutti, anche mio zio, che posta ogni giorno foto e video col cellulare. E mi fa ricordare la prima volta che i miei parenti lessero un articolo di giornale (era il Resto del Carlino, ottobre 2003) su Malafemmena, scandalizzati da un blog che adesso sembrerebbe troppo casto anche per un bambino.

Il web è diventato di tutti. Non c’è più differenza tra on e off line. Era destino che finisse così, che quello che consideravamo un mondo a parte diventasse solo l’amplificazione dello spazio che ci circonda.

Ci siamo tutti, scriviamo, pubblichiamo foto, lavoriamo col web, produciamo contenuti, facciamo e ci facciamo pubblicità, commentiamo notizie, facciamo gli auguri di compleanno, diventiamo celebrità, facciamo i soldi. Ci conosciamo sul web e nessuno ci dice più “ma non hai paura a incontrare uno di internet?”.

La prima Blogfest (ma perché qualcuno si ostina a chiamarla IL blogfest?) a cui ho partecipato è stata quella del 2008. A Riva del Garda pioveva così tanto che Noè aveva mandato un email per dire col ca’ che vengo. Eravamo più timidi ed eccitati. Era la prima volta che ci ritrovavamo tutti insieme e ci guardavamo in faccia. Era stata un’edizione un po’ noiosa, si parlava quasi solo di giornalismo, perché all’epoca si pensava che i blog fossero solo wannabe giornali. Non avevamo capito ancora nulla.

Le edizioni successive sono state belle, pioggia a parte; sempre più sagra e più raduno. Ci andavamo per salutare amici che non vedevamo mai, per mangiare insieme, per ballare (anche se a Riva a mezzanotte la musica doveva tassativamente finire). Salvo rari camp che ancora attiravano l’attenzione, i panel erano deserti e le uniche attività a cui partecipavamo con entusiasmo erano i giochi a premi e gli apertitivi infiniti.

Era diventata – come amavamo definirla – la festa delle medie, bellissima, divertente e ormai troppo disimpegnata.

Quest’anno ci siamo trasferiti a Rimini. C’era molta più gente, più location, più eventi, più VIP, più feste, moooolti più sponsor, più contenuti.

La Blogfest è diventata un vero Festival per chi lavora in rete, più che una festa per chi vive in rete. Non ci sono più i barcamp, ma le conferenze.

L’ultimo baluardo di resistenza è il WriteCamp, organizzato da Mafe de Baggis e Filippo Pretolani, uno dei pochi incontri in cui non si discute (ancora) di business model e si parla di produzione di contenuti e non di vendita di contenuti. E il fatto che a me piaccia questo tipo di non-conferenza, la dice lunga sulla mia età digitale.

Questa è stata la Blogfest più bella degli ultimi anni. Non solo per le feste in spiaggia, per le piadine, per il caldo e il sole, perché c’erano con me gli amici più cari e perché abbiamo ballato fino alle 5 della mattina come se avessimo ancora vent’anni. È stata la più bella perché ha unito socializzazione a discussioni, perché gli eventi istituzionali sono stati meno molesti del solito, perché c’era molta più scelta di argomenti, perché era divisa per aree tematiche e perché nessuno mi ha detto che sono ingrassata (anche se, magari, l’ha pensato).

Come ho scritto qualche giorno fa su Twitter, ho avuto l’impressione di essere cresciuta, non da sola, ma con tutta la mia razza, con quelli con cui vivo da un decennio in rete e fuori dalla rete, quelli con cui chiacchiero ore e ore ogni settimana, quelli con cui ho fatto tantissima strada, la gente della rete, la mia famiglia.

Blogfest

 

Misantropa sporadica

Mi piace praticare una sporadica misantropia.
Alcuni giorni voglio stare da sola, ascoltare musica, camminare e camminare, leggere e non rivolgere la parola a nessuno.
Il silenzio è un’arma potente. Quando impari a conviverci, capisci molte cose, ti capisci e il suono della tua voce, dopo un po’, ti sembra più intenso, più tuo.

È difficile dire alle persone che non hai voglia di vederle, quindi fingo impegni improvvisi, lavori che non devo svolgere, viaggi che non faccio, visite mediche che non ho prenotato. A volte non rispondo agli inviti e basta, tanto puoi sempre dare la colpa al telefono, all’operatore telefonico, all’email non scaricata, alla distrazione, al tempo che passa e non te ne eri nemmeno accorta.

Ci sono pochissime persone che vorrei accanto a me sempre sempre, che non riesco a tenere distanti, che quando ci sono mi sembra di avere un terzo polmone, un occhio in più, due cuori, quattro gambe. Trovo insopportabile che mi stiano lontane e non riesco ad accettare che vivano e sopravvivano anche senza di me.

Vivo così l’amore, come l’espansione del mio corpo, come la moltiplicazione dei sensi, come la condivisione dell’ultimo ossigeno rimasto sulla terra, che se non lo respiriamo insieme, uno dei due finisce molto male.

Non capisco quell’amore piccolo, che non ha fretta né bisogno di essere vissuto, che viene centellinato, che può attendere, che un giorno tornerà da me, ma adesso no, che non in questo periodo, devo pensare solo a me stesso, al lavorocarrieramicisoldideeprogetti.

Quando le persone che sono tutto tutto non ci sono, per scelta, per errore, per malinteso, io preferisco stare da sola, per un po’, non per sempre, per analizzare tutte le tracce che hanno lasciato, per fare pulizia, per capire cosa avevo io in meno o cosa ho dato di più.

Allora pratico la mia sporadica misantropia e mi dico che anche da sola sono niente male, che guarda dove sono arrivata, di nuovo tutta intera, nonostante i pezzi che mi hanno strappato e che si sono portati via e che, secondo me, dopo un po’ muoiono e rimane solo un ricordo.

E che peccato! Perché ho capito che io sono veramente una che dovresti tenere sempre sul comodino, che non puoi farcela a stare senza di me. Ci ho messo tutta la vita per capirlo. E oggi non è un giorno di quelli, quindi indosso il mio vestito bianco e metto il rimmel ed esco di casa e ti vengo a cercare.

 

Cose che mi ha insegnato il 2012 e che spero di ricordare a lungo

La prima regola per non soccombere è imparare a dire di no.

Le occasioni si presentano sempre quando sei disposto a cambiare strada.

La notorietà è effimera. Conta molto più chi sei di quello che sembri essere.

Le storie che hai dentro sono tutte importanti, soprattutto se sei pronto a raccontarle.

Non pensare ai tuoi successi come a traguardi, ma come a punti di partenza.

Se non sei in grado di gioire del successo e della felicità altrui, non sei pronto a meritarti il meglio.

Gli amici veri non chiedono, non pretendono, ascoltano, capiscono, sorridono, abbracciano, ridono. E ti fanno il culo quando stai sbagliando.

Sforzati di esserci, quando gli altri hanno bisogno di te. Fallo sempre.

Non importa l’età. Continueremo, tutta la vita, a innamorarci come adolescenti.

L’amore non basta. No, non basta. Ci vogliono presenza, gioco, desiderio, comprensione, compromessi e pazienza.

Il tempo cura davvero tutte le ferite.

Non è mai troppo tardi.

Non è mai troppo tardi.

Non è mai troppo tardi.

Facendo finta di niente

Le storie che finiscono prima ancora di iniziare lasciano l’amaro in bocca.
Come quando ti servono il tuo piatto preferito e c’è troppo sale, come quando ti rubano il parcheggio, come quando arrivi tardi a una festa e i tuoi amici hanno già brindato.

Stamattina dovevo svegliarmi a New York. Era un viaggio che sognavo da tantissimo. Sai quando ti prepari nei dettagli, studi le mappe, chiedi consigli, consulti google, leggi libri? Poi non sono potuta partire. Il mio biglietto non l’ha usato nessuno. Era di quelli che non potevi rimborsare. Mi sono immaginata l’aereo in volo con il mio posto vuoto. Si può provare nostalgia per un luogo che non hai mai visto?

In questi giorni parlo con tantissime persone. Mi sembra di dire sempre le cose sbagliate. Come se fossi capitata per caso in un posto in cui non dovrei essere. Come se fossi arrivata a spettacolo iniziato.

Ieri ho fatto un viaggio in macchina con gli amici. Quelli veri, a cui racconti le cose. Siamo stati in silenzio. È bello stare con qualcuno senza provare pudore per il silenzio, senza riempire i vuoti con tante parole.

Questa domenica mi sono svegliata presto per andare in palestra. Poi prenderò un treno e leggerò un libro bello. Poi mi chiuderò nella mia casa con le pareti rosse per capire un po’ di cose.

Poi ritornerò a fare le cose che faccio, senza pormi troppe domande, senza fermarmi, senza abbassare lo sguardo, facendo finta di niente.

Allora vivo

Ho usato un sacco di metafore per raccontare quello che mi è successo nell’ultimo anno. Ho scritto tantissimo, ma proprio tanto, su me stessa, i miei sentimenti, le paure, le ansie, le attese, i ricordi, i progetti, le speranze.

Il blog è un diario, è una pagina bianca in cui metti te stesso, ma per me non era mai stato così. Era una vetrina per Dania, per i suoi pensieri sulla satira, sul precariato, sul sesso, sugli uomini.

Il 24 aprile 2011 è il giorno in cui sono morta. È una data che segna un prima e un dopo. È una data che alla fine ho scelto, dopo mesi in cui sbattevo la testa contro i muri, digiunavo, piangevo sempre, sempre, non parlavo mai o parlavo troppo, ero chiusa in una casa con un silenzio assordante. È la data in cui non ce l’ho fatta più e ho deciso che non potevo essere ancora io.

È passato un anno e mi sono successe molte cose, belle e brutte, piccole e enormi, crudeli e dolci. Ho scritto un libro sull’amore, in gran parte raccontando quello che avrei voluto dicessero a me, ho lavorato in TV, pur non avendo età e aspetto televisivi, ed è stata una bellissima esperienza. Ho girato l’Italia con Stiletto Academy, ho conosciuto amiche che adesso sento tutti i giorni e delle quali non potrei più fare a meno. Sono stata insultata, presa in giro, allontanata dagli amici. Sono stata ferita, in modi meschini, sono stata fregata (e qui parlo -ahimé- di soldi), usata, abbandonata ancora e ancora. Nei periodi in cui sei fragile ci sono due tipi di persone che ti stanno accanto: quelli che fanno di tutto per sorreggerti e quelli che fanno di tutto per affossarti. Succede per tutti. Io avevo anche questo enorme sfogo dei Social Network e Dania si è messa da parte ed è arrivata Daniela, e mentre Dania non sbagliava un colpo, Daniela ha fatto e detto cose imperfette, come me.

A un certo punto è finita una storia d’amore e ci ho messo del tempo per superarla. È passato qualche altro uomo, ma poi non si è fermato. Poi ho fatto le valigie, ho chiuso la casa a Padova, ricomprata a fatica, e sono venuta a stare a Milano.

Milano ha il grande vantaggio di non farti mai sentire estraneo. A Roma, a Napoli, se non sei nato lì non ti sentirai mai completamente del posto, mentre Milano è democratica, dà la cittadinanza a tutti. Sei di casa non appena hai i tuoi posti, quando vivi tutta la tua vita nel quartierino, quando eviti la corsa in via Torino o al Duomo nei giorni di punta, quando passi le serate in osteria in Porta Romana, quando conosci a memoria le linee della metro.

Allora mi sono trasferita qui e non è sempre bello. A volte ci sono gli amici, gli amanti, i parenti, le cose da fare, da vedere. Altre volte sei sola con te stessa e il gatto e vorresti scappare lontano, magari vedere il mare, salpare su un cargo battente bandiera liberiana e non tornare più.

Adesso vivo di espedienti, ho pochi lavori, pochissimi soldi, qualcosa da scrivere, un affitto, una coinquilina, solo amici a cui voglio bene, qualche uomo di passaggio e mai troppo giusto, qualche progetto che non ho la grinta di portare avanti, il mio blog.

Sono morta un anno fa e adesso un po’ rinasco, mi alleno, cambio pettinatura ogni due mesi, imparo a sorridere, non racconto più a nessuno i fatti miei, quando mi feriscono riparo con il cabernet, ho una terribile paura nel futuro, ma dicono che significa essere vivi. Allora vivo.

Regine di cuori

C’è questa amica bella che mi insegna a giocare a poker.

Lei gioca a poker da professionista, lo fa proprio per mestiere, con tanto di sponsorizzazione, di stipendio, di divisa per i tornei, di viaggi spesati.

Lei mi insegna a giocare a poker perché io ho bisogno di azzardo controllato, di percentuali, di numeri, di carte piene di cuori, di chips che non sono necessariamente soldi, sono speranze, sono brividi, sono rischio.

Allora ci mettiamo al tavolo, con la nostra immancabile birra e ripassiamo i termini, proviamo le combinazioni, prendiamo in giro i giocatori, parliamo di amori piccoli e di amicizie grandi, di vestiti e di scarpe da portare senza calze, di vittorie e di regali da farci con i soldi vinti per fortuna e talento.

Ieri lei mi ha detto che con carte sfortunate bisogna saper mollare il colpo.

Mollare il colpo significa riuscire a rinunciare alla mano nella quale si hanno poche speranze di vincere e aspettare mani più fortunate.

In questo periodo ho delle carte brutte. Non ho mollato il colpo e sto perdendo tanto. Mi sono fissata con questa mano e non riesco a venirne fuori e non mollo, non mollo, non mollo, mentre tutto va a rotoli.

Dovrei imparare a lasciare e ad aspettare un po’ di fortuna, anche se poi la fortuna conta poco, conta la tecnica, contano i nervi saldi, contano le percentuali, conta saper bluffare.

Dovrei bluffare di più, aspettare mani migliori, tirare fuori assi dalle maniche, conigli dal cilindro, sorrisi dalle giornate di sole, sandali per la primavera, abiti leggeri, occhiali da sole, libri da non lasciare a metà, amiche splendide, le rose comprate di sera e già appassite al mattino, la rabbia giusta, il talento sopito e il coraggio per il prossimo giro di carte.

Dire, fare, baciare quando capita

Sono stata a pranzo con gli amici e ho bevuto tanta birra. Ho gli amici artisti, che scrivono, giocano a poker, fumano sigarette dai nomi strani e raccontano storie divertenti. Beviamo molto e io mi dico sempre basta! è l’ultima volta, ché poi ingrasso a bere tutto quest’alcol. Ma siamo i trentenni precari, noi. Ce lo meritiamo un po’ di alcol, adesso che possiamo permettercelo. Allora metto su un paio di chili e penso che non ho più un fidanzato con cui lamentarmene. Mi tocca andare in palestra.

Ho mangiato una mela Granny Smith, una di quelle mele verdi e grosse e un po’ aspre. La prima volta che ho mangiato Granny Smith è stato da bambina in Olanda, quando abitavamo a Den Haag e ricordo che a Napoli non c’erano le mele verdi, mamma comprava sempre le mele annurche e la Granny Smith era l’esotismo, la trasgressione. È come quella benedetta madeleine proustiana, la mela verde, mi fa pensare a mio padre, come adesso, che provo a finirla e non mi va e mi perdo nei ricordi.

Sto provando a portare in Italia un progetto francese che si chiama Adotta un ragazzo. AdottaUnRagazzo è un social network in cui decidono le donne, gli uomini sono messi negli espositori, li puoi tenere nel carrello un po’, li puoi adottare, ci puoi uscire, scherzare, dire, fare, baciare. È un progetto che mi sta divertendo molto. Potete iscrivervi qui.

Ho deciso di vendere la casa padovana per diventare veramente milanese e non so ancora se Milano è la città per me. Non mi ha mai corteggiata molto, non mi fa le fusa, non è galante. È un po’ come gli uomini di cui mi innamoro, per questo mi piace tanto.

Solo gli abbracci

Oggi è il mio compleanno.

Sono stata in palestra, ho pulito casa, ho mangiato avanzi, ho lavorato.
Ieri ho invitato gli amici a cena, per festeggiare il non compleanno e sono stata bene. Che poi avevo detto faccio una cosa piccola, senza impegno e invece abbiamo cucinato tantissimo e mangiato e chiacchierato e c’erano tutte le persone a cui voglio più bene a Milano e per questo sono stata bene, anche quando i vicini hanno iniziato a battere sulle pareti per dirci oh, bella gioventù, qui la gente vuole dormire, nonostante il vostro party di non compleanno. Poi abbiamo rotto una bottiglia di vino pregiato, però non l’abbiamo fatto di proposito, così abbiamo portato fortuna alla casa, come il varo di una nave e noi come mozzi a pulire per terra.

Oggi è il mio compleanno. Non pubblicherò nessuna foto, non scriverò d’amore, non parlerò del passato, non aspetterò nessuno.

Oggi sto bene. Perché a volte fanno benissimo anche solo gli abbracci.

E la crema al mascarpone sul pandoro.

Copernicana

Un tempo ero quella che dava consigli agli amici e alle amiche in piena tribolazione sentimentale.

Ero una brava a dare consigli, sapevo ascoltare, capivo le persone velocemente, ero abbastanza cinica e abbastanza romantica, mai troppo indiscreta, sempre ponderata, sempre ironica.

Avevo tantissimi amici che mi chiedevano e cosa devo fare? cosa devo dire? tu cosa faresti? e mi dicevano beata te che non hai il cuore in tempesta, che hai trovato, che sei serena, che non sai quanto si sta male e io dicevo le cose pensando che facessero stare meglio ed era bello e mi sembrava facile.

Mi piaceva essere la spalla su cui piangere e gli amici o i presunti tali, soprattutto quelli che cercano kleenex emotivi e non scambi alla pari, mi cercavano, mi chiedevano, raccontavano, piangevano, raccontavano ancora, sbagliavano, sbagliavano volutamente, sospiravano.

Poi è successa quella cosa che l’amore è impazzito, si è trasformato, è cambiato, ha preso un machete e ha iniziato a fare a pezzi, a farmi a pezzi dentro. È stata una rivoluzione e quello che si sapeva prima dopo non serviva più, come quando hanno scoperto che la Terra gira intorno al sole e quelli che prima insegnavano il contrario e sapevano le cose si sono ritrovati a non sapere più nulla, a vivere in un mondo che non conoscevano. Che poi, quelli che dicevano che la Terra gira intorno al sole, i primi dico, non hanno fatto una bella fine e forse le rivoluzioni hanno bisogno di tempo per essere accettate. E io non sono finita sul rogo né ho dato fuoco a nessuno, avrei voluto tanto, ma non l’ho fatto, però ho preso tutti quegli amici che mi cercavano solo come sparring partner sentimentale e li ho gettati via e sono rimasta senza saper dare consigli.

Ne ho chiesti tanti, allora ho capito come ci si sente nel nuovo mondo copernicano e quasi nulla di quello che mi è stato detto mi ha fatto stare meglio, anzi, qualcosa sì, detto da qualcuno a cui non avrei mai affidato nemmeno il mio gatto per un pomeriggio, figuriamoci un cuore.

E non so cosa volevo dire quando ho iniziato a scrivere questo post, probabilmente che il mio mondo è cambiato, non ci sono più certezze, non ci sono più stelle polari con le quali orientarmi e che la gente dà buoni consigli se non può più dare cattivo esempio e smette di dare buoni consigli quando ha di nuovo voglia di sporcarsi le mani con la melma emotiva e sbagliare.

Credo.

O forse è solo una nuova era, quella in cui la Terra gira intorno al sole, il sole intorno a me, tu sei in un buco nero, il mio frigo è incredibilmente pieno, Milano ha questo strano cielo limpido e azzurro e ci sono così tanti pianeti ancora da esplorare.

Il senso

Sono andata a vedere lo spettacolo di un vecchio caro amico che non incontravo da tanti anni.

Lui era quello di noi – sognatori, rivoluzionari pigri, chiacchieroni, brillanti e arrabbiati – che aveva davvero talento.

È diventato famoso, ha vinto tutti i premi possibili, gira il mondo, da Tokyo a New York, e fa quello che ha sempre desiderato fare.

Ci siamo parlati per pochi minuti prima che si alzasse il sipario e vedendolo così realizzato, così adulto, così diverso da quello che era eppure così tanto uguale, così coerente, così illuminato, così deciso, gli ho chiesto:

«Ma, quindi, sei felice?»

e lui mi ha risposto

«In che senso?».

Allora ho sorriso, l’ho salutato, gli ho detto “tanta merda” e sono andata a sedermi al mio posto.