Da bambina, quando mi chiedevano “cosa vuoi fare da grande?” rispondevo sempre “la regina”.
Mi sembrava una professione onesta, un lavoro nobile, per il quale ero naturalmente portata.
Sarei stata una regina illuminata, avrei aiutato i poveri e le persone in difficoltà, avrei punito i cattivi, ma avrei anche cercato di farli ragionare per far capire loro che essere buoni sarebbe stato di sicuro più vantaggioso. Avrei dato tantissime feste, aperte a tutti, e buoni consigli. Avrei salvato tutti i cani randagi del mio regno e costruito parchi giochi per i bambini.
Volevo fare la regina perché pensavo che avrei evitato le guerre, che avrei parlato con gli altri re e governanti e avrei spiegato loro che era meglio lasciar perdere, chi vuole mettersi a combattere tutto il giorno, a sporcarsi i vestiti di sangue, a sparare, a recuperare brandelli di cadaveri, quando si poteva giocare insieme, mangiare la pizza, bere la fanta, piantare fiori, andare al mare?
Mi sembrava un’ambizione lecita, fare la regina, molto più intelligente di fare l’astronauta o la ballerina.
Poi, un giorno, mia madre sorrise, mentre spiegavo ai miei zii come sarebbe stato bello il mio regno, e mi disse che, salvo rarissimi casi, per diventare regina sarei dovuta nascere in una famiglia nobile. Regine si nasceva, quasi sempre, e la nostra famiglia non era affatto nobile (forse solo un po’, nell’inutile cognome) e certo avrei potuto fare tanti altri splendidi lavori da grande, ma la regina forse no, non era detto, ma probabilmente no.
Allora avevo iniziato a odiare la mia famiglia, la mia famiglia che non era nobile e che non mi permetteva di diventare regina e salvare il mondo dalle guerre con la fanta, la pizza e i giochi. Mi sembrava di aver sprecato una nascita, venendo al mondo così portata per regnare in una famiglia qualsiasi.
Pensavo che mi sarei dovuta inventare un altro futuro, dopo che avevo già detto a tutti i miei amichetti che sarei stata la loro regina. Mi pesava deluderli.
Poi, mentre il tempo e la vita passavano, iniziai a capire che questi che nascevano re erano persone peggiori di quanto mi fossi immaginata. Non era nemmeno colpa loro, era regnare che era sbagliato. Studiavo le monarchie sul sussidiario e capivo che io non volevo averci nulla a che fare con questa gente, brutta gente.
E un giorno, a casa, mentre facevo i compiti, chiesi a mia madre “mamma, noi siamo poveri o ricchi?” e lei mi rispose che eravamo gente normale, gente onesta che avrebbe lavorato tutta la vita per campare.
Allora capii, mi fu tutto chiaro: noi eravamo il popolo, gente che lavora e campa, quelli che stanno fuori dai cancelli dei castelli dei re, che vivono, mangiano, amano e muoiono senza corona. E mi piacque scoprire di essere il popolo, mi piacque scoprire di non essere destinata a diventare una brutta persona.
E fu allora che guardai mia madre e dissi, con la solennità di una bambina che aveva capito tutto, “mamma, ho deciso, io da grande voglio fare la rivoluzione!”.