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La fatica dei sogni

Non mi sono mai pentita di aver scelto la libera professione.
Avevo un posto da dipendente, facevo un bel lavoro, guadagnavo pochissimo, ero pendolare (Padova-Venezia, 42 km all’andata, 42 km al ritorno), la mia era una piccola azienda con delle colleghe carinissime e con proprietario “paròn”, che ci considerava figli quando tutto andava bene e mangiapane quando le cose si mettevano male.
 
Ho lasciato tutto senza avere un progetto, sono venuta a Milano, sono stata fortunata perché cambiare le cose ha smosso le acque, ha cambiato l’energia intorno a me e sono arrivati contatti, progetti, proposte, novità.
 
Adesso faccio il lavoro che ho sempre sognato, guadagno di più di quando avevo il posto fisso (ma ho avuto anche periodi di pane e cipolla), gestisco il tempo in maniera più razionale, riesco a stare più ore con mio figlio di quante ne passerei se fossi in ufficio.
Non ho nessuna certezza.
I miei progetti non vanno mai oltre i 4-5 mesi. Otto mesi, quando va bene.
Ho barattato la tranquillità per il tempo, la sicurezza per la scrittura, il contratto per il contrattare.
Mi ripeto sempre che avrei dovuto farlo molto prima, perché questa vita mi calza a pennello.
Ma ritengo che ognuno debba poter scegliere qual è la sua strada, condizioni permettendo.
Ripeto: se le condizioni lo permettono.
Perché ambizioni, progetti e sogni devono pur coincidere con la realtà.
 
Nel nostro piccolo dovremmo avere il coraggio di scegliere sempre l’opzione che ci somiglia di più, anche se richiede più sforzo. Ma nel caso non avessimo alternative, dovremmo cercare di non maledire la sorte e provare a cambiare il poco che possiamo.
 
Realizzare sogni, grandi o piccoli, presuppone fatica. Anche se nessuno te lo racconta mai, perché è più poetico raccontare che tutto accade per destino. Il destino (anche detto botta di cu*o) conta in minima parte. Servono volontà, determinazione, fame e ottimismo.
Io l’ottimismo non l’ho mai avuto, però ho fame per un esercito.
Buona fortuna.

Il futuro è un posto meraviglioso

Sono in vacanza.

Non ferie, vacanza, perché noi liberi professionisti ci ritagliamo il riposo quando abbiamo poco o niente da fatturare.

Ho passato nove mesi a lavorare ininterrottamente, anche nei fine settimana, ed è una cosa bella, anche se faticosa, perché oltre a bollette e mutuoaffitto pagato, ho anche avuto l’illusione che la crisi stesse per sparire. D’estate mi sono chiusa in casa a scrivere. Tutto agosto a Milano, da sola, rintanata nel mio appartamento silenzioso insieme al gatto. Ho scritto un romanzo, un racconto e tre proposte per nuovi libri. Ho fatto pace con le parole e adesso mi sembra di averne tantissime da usare e troppe storie da raccontare. Consegnato il libro nuovo, chiuse un paio di collaborazioni, sono in vacanza.

Parto in viaggio, a visitare posti belli, prendere appunti, buttare giù soggetti, abbozzare capitoli, salutare gli amici.
Da grande mi piacerebbe fare questo: viaggiare, scrivere, leggere, fotografare, mangiare, chiacchierare.
Piacerebbe a tutti, certo, ma io ci credo davvero che possa diventare un lavoro. Forse non l’unico, ma – diciamo – il principale. Dopo aver fatto tanto, atteso, sperato, rischiato, perso spesso e raramente vinto, dopo aver faticato, elemosinato il mio dovuto e tenuto la testa bassa per portare a casa la pagnotta, credo che sia giunto il momento di sognare a occhi aperti e voce alta e di puntare il più in alto possibile.
E se non dovessi farcela, posso sempre rimettermi a fare quello che faccio da una vita intera: la simpatica precaria che, nonostante tutto, crede ancora che il futuro sia un posto meraviglioso.

Ci vediamo presto.

Ce. La. Puoi. Fare.

Per la mia laurea, nel lontano 2002, avevo chiesto in regalo una Reflex. Una Canon EOS analogica, ché il futuribile era di là da venire, con un bell’obiettivo. Una discreta macchinetta, perché dopo anni di viaggi strampalati e di scatti rubacchiati con piccole compatte e metri e metri e metri di pellicola, avevo deciso che da grande avrei potuto fare la fotografa. Che ne sai? Tutti mi dicevano hai occhio, dovresti lavorarci su, poi te ne vai nei paesi arabi con la tua laurea che come ti è venuto in mente di prenderla e ci fai dei bei reportage.

La maneggiavo come se fosse di cristallo.

Un paio di settimane dopo me ne sono andata a Napoli. Ho fatto una sosta di pochi giorni a Roma. E mi sono fatta fregare la macchina. Subito. Un borseggio. Oh, succede. A Roma ti fottono anche se sei napoletano. Ma a me non avevano mai rubato nulla. Allora i sensi di colpa che hai quando ti succede qualcosa di brutto, potevo evitare? è stata colpa mia? potevo essere più scaltra? se avessi fatto? se avessi cambiato strada?

Ho letto questa cosa come un segno. Demotivante. Io sono la regina del pessimismo. Quando mi porgono un bicchiere, io non penso nemmeno se è mezzo vuoto o mezzo pieno, tanto sono sicura che contiene acqua non potabile. Mi farà male al pancino.

Mesi dopo, al mio compleanno, gli amici avevano fatto una colletta per ricomprarmi la reflex. Ma io avevo già abbandonato l’idea di fare la fotografa. Sono fatta così. Mi scoraggio. E lascio perdere.

Sono sempre stata brava, anche molto, molto brava, in tante cose, lo studio, il teatro, il coro, le lingue, la cucina, la matematica, il ragù, ma non credo di essere mai stata eccellente in niente. Se nasci con una voce incredibile, una bellezza incantevole, una presenza scenica sublime, un portentoso orecchio musicale, un quoziente intellettivo da genio, una mano da pittore, i piedi da atleta, lo capisci subito il tuo destino.
E anche se non sei il numero uno, prima o poi arriva il momento in cui scegli cosa fare. E ti impegni. E ci provi.
Non succede a tutti. Anzi, molte persone si lasciano vivere, ragionano per obiettivi minimi: lavoro, casa, famiglia, macchina, vacanza e vivono vite degnissime e soddisfatte, senza l’ansia di un progetto maggiore. Però quasi tutti coltivano sogni, che abbandonano per incapacità, pigrizia, maturità.

Io ho abbandonato molti sogni per paura, altri perché la realtà mi ha presa a schiaffi, altri perché mi stavano stretti e altri ancora me li sono proprio dimenticati.
Certe volte, in passato, mi sono circondata di persone entusiaste e brave. Forse erano i vent’anni. Forse mi avevano conosciuta con un’altra luce negli occhi, non lo so, ma quelle persone lì, alcune, mica tutte, anche se per brevi momenti, avevano creduto in me. E allora io mi ero sentita speciale. E quelle volte avevo pensato davvero che sarei diventata una grande attrice o una grande antropologa o una grande scrittrice o una grande donna.

Poi, certo, c’è stata la vita, i lutti, i debiti, la precarietà, le scelte sbagliate, i problemi in famiglia, le malattie, i traslochi, gli amori finiti. A un certo punto la ricerca di un sogno sembrava una perdita di tempo. Lavorare, guadagnare, sopravvivere. Ho cambiato così tante vite e case e città, che a un certo punto mi sono ritrovata così diversa che non mi riconoscevo nemmeno più.
E quando è diventato tutto un po’ più difficile, superati i 30, con contratti in scadenza, fatture non pagate e mutuaffitto, anche le persone intorno a me sono cambiate.
Così, negli ultimi anni, quando le cose andavano male, in moltissimi mi dicevano che dovevo accontentarmi. Accontentati, riduci le aspettative, lima i sogni. Mi spiegavano dove sbagliavo, così convinti di avercela fatta loro, solo perché, magari, erano riusciti a coprire la loro mediocrità con un accumulo di flebile ricchezza. Quando cresci, i sogni perdono valore se non ti rendono danaroso.

Allora l’Italia andava male, però per le persone negative intorno a me ero io, io, con la mia incapace indolenza, con la mia pigrizia, con la mia chissàcosa, chiticredevidiessere, a non funzionare. Quindi taglia, riduci, togli.

L’insicurezza è un virus letale. Se non lo curi subito, con una bella dose di faccia tosta, diventa cronico. E l’insicurezza ti fa circondare di brutte persone. Che sono tipo vampiri, che ti succhiano energie e forza, ma meno fichi dei vampiri, hanno la pancetta, la cellulite o la forfora. In sintesi, mi sono circondata di stronzi.

Mi hanno fatta sentire di nuovo borseggiata. Hai solo puntato troppo in alto. Solo quello.

E così ho rallentato. Rallentato. Rallentato. Poi mi sono fermata. Scrivere, viaggiare, stringere mani, fare colloqui, inviare progetti, fare brainstorming. Tutto fermo. Solo piccole cose, senza alzare gli occhi, come dicevano loro, riduci, ridimensiona, ti insegniamo noi come si fa. Un’ombra.

Epperò mi ha salvato l’imprevisto. Quello lì, l’uomo che non aspettavi ed entra nella tua vita e ti dice che tu sei di un altro pianeta e chi ti ha detto che non puoi volare ti ha mentito. Quell’uomo che ti insegna la filosofia di Stallone e ti dice ogni volta che cadi devi rialzarti, alzati, combatti anche per 14-15 round, perché non importa se stai prendendo a pugni un campione, tu ce la puoi fare. Anche se perdi, ce la fai. Lui, che quando tu gli dici non sono capace, non l’ho mai fatto, non ci riesco, lui non ti abbraccia e compatisce, ma ti dice fallo e basta, muoviti, sei invincibile.
Funziona. Non da un giorno all’altro. Ma funziona.
Ricostruire l’autostima, allontanare la negatività, riprendere i sogni che non è troppo tardi, ritrovare l’energia.
La procrastinazione, mi fotte, su quello devo lavorare, ma funziona.
A volte i sogni si realizzano solo se c’è qualcuno che ha davvero fiducia in te. Un po’ come Babbo Natale, che se ci credi, esiste. Un po’ come il Punto G.

Sia chiaro, non ho realizzato ancora nulla, però ho capito una cosa importante. Bisogna puntare in alto. Anche bluffando. In alto.

Ce. La. Puoi. Fare.

E vaffanculo le brutte persone!

Tu lavori? E io non ti pago

L’ho già scritto molte volte, ovunque, compreso nelle email che mando a mammà, che la crisi è diventata un alibi sfruttato fino all’esasperazione per non pagare.

Riassumo il mio pensiero spicciolo: in Italia c’è lavoro. Non ce n’è come un tempo e non ce n’è per tutti, soprattutto per quelli che – ammettiamolo – non hanno mai saputo fare una mazza, si sono adagiati su piccole certezze ormai scomparse nel vento, senza mai aggiornarsi, evolvere professionalmente, studiare, imparare.
Però ce n’è, se sai proporti, se sai adattarti, se conosci le lingue, se sai interagire con esseri umani e non di qualsiasi tipo, se sei disposto a farti il mazzo. Lavori.

Il vero problema è farsi pagare.
Non paga nessuno. Ma proprio nessuno.

Certo, io sono una libera professionista e probabilmente il mio mondo è molto più complicato (ma forse nemmeno tanto), rispetto a quello di un dipendente. Ricordo che, fino a tre anni fa, quando avevo il mio contratto a tempo determinato, lo stipendio veniva accreditato ogni mese, ma sul collo mi pendeva un’altra mannaia, quella del rinnovo che fino all’ultimo giorno “vedremo” “chissà” “non possiamo garantirtelo”.

In Italia non paga nessuno. Quelle scadenze che tu metti in fattura, 30 gg, 60 gg df, 90 gg dffm ecc., non servono a nulla. Sono geroglifici che nessuna amministrazione, grande o piccola, riesce o vuole più decifrare.

“Eh, ma c’è la crisi!”

È una crisi che da vent’anni ci trasciniamo come biglietto da visita da debitori, da quando è diventato lecito (e legittimo) pagare dopo due, tre, sei mesi una prestazione professionale.

La scusa più frequente che ti senti dire è: “quando il mio cliente pagherà me, io pagherò te” e lì vai a capire se non si perderà nella notte dei tempi, il saldo della tua fattura, dal momento che la tua attesa si basa sulla fiducia che il tuo datore di impiego non abbia liquidità sufficiente a pagare il tuo micragnoso compenso.

Non escludo che i casi di inadempienza siano in alcune situazioni l’unica possibilità di rimanere a galla, ma ho la certezza, supportata da fatti, che il malcostume sia soltanto diventato prassi, prassi alla quale abbiamo fatto l’abitudine, adeguandoci con rassegnazione, convinti di non avere alternativa.

Il lavoro del freelance si sviluppa in queste fasi:

– aggiornamento competenze
– autopromozione
– contrattazione di un compenso molto spesso umiliante, frutto di “chiediamo a qualcun altro che ce lo fa per la metà” “abbiamo un budget risicatissimo” “possiamo al massimo darti un sacchetto di fagioli secchi e un buono pasto” “ma alla fine devi farci due sciocchezze” “ma questo preventivo è fuori dal mondo. Quel lavoro può farlo una mia stagista a costo zero”
– svolgimento della prestazione che risulta essere sempre più impegnativa e onerosa di quanto concordato
– fatturazione con indicazione termini di pagamento
– attesa saldo
– attesa
– attesa
– attesa
– sollecito ad amministrazione
– attesa
– attesa
– ulteriore sollecito con minaccia (palesemente fasulla) di consultazione con legale
– attesa
– colorite bestemmie e richiesta di prestito a genitori pensionati per poter pagare affitto e bollette
– attesa
– desiderio di cavare gli occhi a cliente inadempiente con un cucchiaino
– ulteriore disperato sollecito che verrà infilato nella cartellina spam
– raro lieto fine con pagamento
– nessun pagamento, con successiva reale consultazione di un legale che chiederà un compenso pari o maggiore al pagamento dovuto e che a sua volta dovrà attendere tuo saldo.

Le aziende corrette, rarissime, quando hanno difficoltà a mantenere gli accordi, ti avvisano in anticipo e ti inviano scuse scritte e garanzie di pagamento repentino.
Le altre, la maggior parte, fanno finta di nulla, addestrano i referenti amministrativi all’omertà, insinuano nelle email sibilline minacce di non rivolgersi più a te per ulteriori lavori (e stigrandissimicazzi! Sono io che non voglio più lavorare con te, brutto rottoin***o!), spesso giustificano il loro ritardo con tue carenze o errori che, guarda caso, non erano saltati fuori durante lo svolgimento della mansione.

C’è una soluzione al circolo vizioso del lavoro e non vengo pagato quindi cerco altri lavori per mangiare e non vengo pagato nemmeno per quelli e così all’infinito?

Nelle appassionate discussioni su Facebook e Friendfeed sull’argomento, le ipotesi sono sempre irrealizzabili: “richiedi un anticipo prima di iniziare il lavoro” (ahahahahahaha. Sarebbe più facile chiedere a Sergio Múñiz di passare la notte con me e ricevere un sì come risposta), “rifiuta il lavoro” (rinunciando anche alla minima speranza di ricevere del denaro in un lontano futuro), “cambia mestiere” (uh, come ho fatto a non pensarci!), “vai a vivere all’estero”.

Il Paese è lo specchio della sua classe politica, clienti truffaldini, nessun senso civico, fornitori e dipendenti senza alcun potere contrattuale e nessuna possibilità di mordere, ferendola, la mano del padrone, l’idea viscida e radicata che pagare (tasse, prestazioni, servizi) sia una perdita di tempo.

Quelli di noi che hanno una memoria a più lungo termine della massa ricorderanno senza fatica che il declino del sultano ventennale iniziò quando una delle sue mignotte decise di sputtanarlo, perché non era stata pagata.

Se potessimo produrre energia dall’indignazione, avremmo risollevato le sorti dell’Italietta.

E invece ci troviamo a fare i conti con la desolante certezza che le cose cambieranno a fatica e sempre perché arriverà qualcuno da mamma Europa e tirarci le orecchie. Se mai accadrà.
E siamo circondati da tanti piccoli lavoratori come noi che decidono di essere conniventi.
“Piuttosto che non lavorare lavoro gratis”.

Be’, caro collega che abbassi il valore del mio lavoro concedendo la tua prestazione a costo zero, convinto che un domani la cosa possa tornarti utile e, intanto, abiti nella tua cameretta di bambino a casa di papà, ti svelerò un segreto: se non sei pagato, non è lavoro. È volontariato, o masochismo. Se non ti fai pagare adesso, nessuno ti pagherà mai, perché il tuo valore verrà concepito per il prezzo a cui lo vendi: zero.

E voi, cari clienti che non pagate e fate finta che la cosa vi sia sfuggita per distrazione, che leggete o no il mio blog, che considerate il mio lavoro buono o cattivo, ma non prioritario, salvo cercarmi per risolvere rogne, voi che non sganciate un euro da mesi e dormite tranquilli, sappiate che io vi ricordo sempre nelle mie preghiere, nell’ultima disperata speranza del contrappasso, quando starete bruciando tra le fiamme dell’inferno e i diavoli vi rassicureranno dicendo “non ti preoccupare per la sete. Tra 180 giorni fine mese, ti darò una lattina di Coca Zero”.

Prima o poi arriverà l’estate

Ho consegnato anche l’ultimo libro. Il secondo scritto dall’inizio dell’anno. Non avrei mai creduto di scrivere tanto. È bello, faticoso e mi causa un continuo straniamento.

Chiusa in casa, china su word, perdo la cognizione del tempo. Pensavo fosse aprile, invece è già giugno, anche se fa freddo come a ottobre.

Mi rimetto a cercare lavoro, ma è sempre più difficile. Non dovrebbe finire la crisi? Non dovrebbe essere ciclica?

Per fortuna ho tempo e frigo vuoto per prepararmi alla prova costume.

Prima o poi arriverà l’estate.

Tempi di recupero

Ho sempre pensato che il più grade lusso sia poter gestire il mio tempo come credo.

Gli ultimi anni da dipendente li ho vissuti da pendolare: bici legata dietro la stazione, treno all’alba, battello fino a Rialto, solo mezz’ora di pausa pranzo, battello, treno, bici, rientro.

E poi ci sono stati quei lavori in auto a 25 km da casa e quelli per cui prendere la metro, l’autobus, la corriera, il calesse. E i cartellini e gli straordinari e i recuperi e il lavoro fatto a casa nei weekend e mai retribuito e le riunioni che finivano alle nove di sera perché l’amministratore delegato si era svegliato nel primo pomeriggio e aveva fatto tardi.

Tutti lavori pagati pochissimo, perché ringraziaiddio che ce l’hai un lavoro, perché cèlacrisi, perché è il mercato, perché potremmo sempre fare a meno di te, perché – vedrai! – al rinnovo ti facciamo lo scatto di livello e invece mai.

Quando ho deciso di diventare una libera professionista, ero molto stanca. Guadagnavo poco, lavoravo tanto e avevo troppe responsabilità e poca soddisfazione. È stata una scelta obbligata: esaurimento nervoso o tranquillità. L’uno o l’altra.

Adesso il tempo lo gestisco io. Quel poco che mi rimane. Perché non ci sono più orari, fine giornate, fine settimana. I giorni in cui posso dormire fino a tardi sono quelli in cui non c’è lavoro. Quando non c’è lavoro non si guadagna. Nell’ultimo anno ho lavorato molto poco e ho guadagnato pochissimo. Un anno che ho chiamato “tempo di recupero”.

Non tornerei indietro. Preferisco inseguire tanti clienti che leccare il culo a un solo padrone. Preferisco lavorare di notte e poi dormire un paio d’ore dopo pranzo. Preferisco stare a casa che in ufficio. Tra guadagnare poco alla scrivania di un’azienda e guadagnare poco sul mio divano, ho scelto la seconda. L’ho fatto soprattutto per un motivo: il posto fisso non mi avrebbe comunque garantito di campare serena.

Fino a quando potrò resistere, resisterò. Negli ultimi due anni ho fatto molte cose belle e ho stretto molto la cinghia. Ho avuto il tempo per scrivere e leggere. Un ottimo tempo di recupero.

Sono convita che le cose andranno meglio. Vivo un’altalena emozionale continua. Un mese fa temevo di morire di fame, adesso penso che potrò arrivare almeno a luglio.

Stamattina ho dormito fino a tardi. Stanotte lavorerò per recuperare.

È tutta una questione di gestione del tempo e gestione delle tazzine di caffè.

Caffè e tempo. È tutto lì.

Disoccupati jazz

La prima cosa che ho capito nella ricerca di un lavoro è che nessuno deve capire che hai davvero bisogno di un lavoro. Soprattutto se anche tu ti sei ritrovato, come me, a fare il freelance o, meglio, il disoccupato jazz.
Devi dare l’idea di essere uno richiestissimo, che se lo fa è proprio perché vuole farti un favore, che deve controllare la sua agenda fitta di impegni. Ti faccio sapere, non so se riesco, sono pieno di richieste, tutti mi vogliono, tutti mi cercano.

Il fornitore di lavoro è più predisposto a far sgobbare chi ha già una fonte di guadagno che chi non ce l’ha. Perché, se nessuno ti fa lavorare, è quasi sicuramente perché non sei abbastanza bravo. Importa poco se il tuo curriculum è eccellente, se hai dimostrato di essere in gamba, se hai già lavorato con successo in tanti progetti simili. Ce l’hai un lavoro? No? Allora mi dispiace, non posso darti lavoro.

Quello che spesso la gente ignora (o fa finta di ignorare), in un settore come il mio e in moltissimi altri, è che la maggior parte dei lavori si ottengono non per merito, ma per strette di mano, aperitivi tracannati insieme, matrimoni, discendenza, passaparola. Quello che più conta è la tua capacità mondana e diplomatica, chi frequenti, chi sposi, con chi sei andato all’università (e con chi sei andato a letto, anche se il sesso è una moneta di scambio che ha sempre meno valore, a meno che tu non sia un ultrasettantenne Presidente del Consiglio).

Essere bravi è spesso la cosa meno importante. Non sempre, certo, ma con molta frequenza. Perché dovrei affidarti un lavoro in base al tuo curriculum, quando tizio e caio sono amici di mia moglie dai tempi del liceo?

Così, se perdi il lavoro ti ritrovi in un circolo vizioso di non lavoro e l’unico modo per uscirne e trovare di nuovo lavoro è, appunto, trovare un altro lavoro.

Cosa stai facendo al momento? Mah, seguo progetti, do consulenze, collaboro.

La millantata collaborazione è l’unica scappatoia alla fame. Purché sia credibile. Con un po’ di pratica, diventi credibilissimo nella supercazzola del lavoro supposto. In un Paese meraviglioso in cui anche i politici millantano titoli di studio e competenze, perché dovresti privarti del vantaggio di venderti come se fossi stocazzo?

Oltre alla frustrazione e alla disperazione di non poter arrivare a fine mese o, peggio, nemmeno alla metà del mese, devi sorbirti anche la beffa del “preferisco affidare il progetto a qualcuno che è già attivo nel settore”.
Sei un passivo, motivo per cui te lo infilano sempre nel sedere.

Qualche mese fa, all’inizio del mio periodo nero di mancanza di liquidità che ancora persiste, per i pagamenti sempre più dilazionati e per la diminuzione di brand e agenzie alla ricerca di figure come la mia, ho mandato a tutti i conoscenti che potevano darmi una mano questa e-mail.

Ciao,

hai sentito parlare di quella faccenda della crisi?
Ecco, io mi ci sono ritrovata invischiata, senza che nemmeno me ne rendessi conto.
Quindi, adesso, cerco lavoro.
Sono brava a intrattenere, organizzare e scrivere. Ma so fare tantissime altre cose. Tutte quelle che servono.
E non sporco, non alzo la voce, non organizzo ammutinamenti, non rompo le scatole.
Ho una partita IVA e non ho paura di usarla.
Insomma, cerco collaborazioni, anche piccole e non ho bisogno di scrivanie perché lavoro benissimo da remoto.

Se conosci qualcuno che cerca, potresti fare il mio nome? Ti ricorderò per sempre nelle mie preghiere.
Scusa se ti ho messo in ccn, ma era il modo più veloce per implorare più persone allo stesso tempo.

Buona giornata,
Daniela

Tutti mi hanno dimostrato grande solidarietà, anche se la trippa per gatti era pochissima e a spartirci la pagnotta siamo in troppi, tranne un conoscente che mi ha detto, con molta franchezza: “speri davvero di trovare lavoro chiedendo lavoro? Devi tirartela! Te lo puoi permettere. Solo i perdenti elemosinano collaborazioni”.

Così ho provato a tirarmela. Ho chiesto un prestito per pagarmi l’affitto, in attesa che gli ultimi creditori saldino i loro conti, e sono andata avanti. Sono tornata a fare la presenzialista, a infilarmi agli aperitivi, a fare la linea comica, a sorridere, ad andare a cena con beceri figuri che “proponimi un’idea” (salvo poi sparire quando la tua idea non coincide con il loro materasso). Ho iniziato a dire che mamma mia, non ho un momento libero, per tutto questo lavoro!

La stima nei miei confronti è tornata alle stelle. Ah, che sensazione meravigliosa sentirsi vincenti! Anche se la spesa all’Esselunga la paghi in quattrini e non in ammirazione.

Pochi giorni fa, un progetto per cui ero perfetta è stato assegnato a un’altra persona. Secondo un talpa interna, il mio preventivo era troppo basso e non mi dava credibilità.

La seconda cosa che ho imparato sul lavoro è che se costi poco nessuno ti darà un lavoro. Salvo poi perdere lavori perché “non c’è abbastanza budget”.

Il ministro Fornero aveva scatenato un putiferio affermando che i giovani italiani sono troppo choosy.

Be’, io credo che invece… VAFFANCULO!

La terza cosa che ho imparato sul lavoro è che non capirai mai fino in fondo cos’è che fa davvero funzionare le cose.
Improvvisare, bisogna continuare a improvvisare.

“Quando non sai cos’è, allora è Jazz!”
(Alessandro Baricco)

 

 

La generazione dello speriamo

“Siamo la generazione dello speriamo”, ci siamo dette un paio di sere fa io e la mia coinquilina, mentre consumavamo una delle nostre cene improvvisate davanti al solito telegiornale apocalittico.

Le nostre non sono speranze allegre e motivanti, così normali da giovani e così appaganti da vecchi. Il nostro speriamo nasconde fatica, frustrazioni, terrore per il futuro e un enorme dispendio di energie.

L’Italia non è mai stato un Paese meritocratico e non ne ha mai fatto mistero. Importa molto poco il talento. Quello che ha davvero valore è il cognome. Eppure siamo riusciti ad andare avanti senza estinguerci (forse nostro malgrado) e a costruire qualcosa che sembra progresso e, molto raramente, sembra anche democrazia.

Per quelli come noi, nati alla fine degli anni ’70 o nei primi anni ’80, c’è stata anche la sfiga generazionale. Siamo entrati nel mercato del lavoro quando stava cambiando, sgretolando certezze e condannandoci a effimeri spiragli di normalità professionale che la storia ha bollato come precariato.

È vero, e lo sosterrò fino alla morte (che mi travolgerà precoce per l’ansia da mutuo), che la rivendicazione di un diritto al lavoro non deve essere alibi per mascherare incompetenza, inadeguatezza e pigrizia. Non tutti siamo bravi, non tutti siamo all’altezza, non tutti ci facciamo davvero il mazzo e meritiamo di poter progettare un futuro. La crisi aumenta la competitività e dovrebbe fare emergere talenti.

Dovrebbe.

Purtroppo non ci riesce sempre, perché qualsiasi talenti e idee hanno bisogno di un fazzoletto di terra per essere piantati, curati e lasciati crescere. Un piccolo capitale da investire, un mecenate, un’occasione, un contatto, un’università prestigiosa pagata dai genitori, la casa di tua zia presa in affitto per due lire. Esistono persone che si sono fatte da sole, ma la maggior parte ha iniziato a navigare nel grande mare delle professioni aggrappata a un piccolo salvagente che aveva in dotazione.

E comunque non siamo giustificati, quando ci lamentiamo senza dare il massimo, quando ci rassegniamo e smettiamo di cercare, quando pur di rimanere nello stesso quartiere in cui siamo nati, rinunciamo a possibilità di lavoro più lontane.

Nella giungla, se ti fermi troppo tempo sotto a un albero ad aspettare che la frutta ti cada in mano, rischi di essere sbranato dai ghepardi o, se ti va di lusso, che le scimmie ti usino come toilette.

Chi si ferma è perduto, ragazzi! Celacrisi, celacrisi, celacrisi!

Detto questo, però, non raccontiamoci balle. Anche quando diamo il meglio e siamo bravi e non molliamo e rischiamo e abbiamo coraggio e non tentenniamo, finiamo a guardare il calendario sul nostro computer, a contare i giorni che ci separano alla fine del mese e a dire speriamo.

Nell’ultimo periodo, mi sono ritrovata a sopravvivere facendo solo cose che mi piacciono. Dopo anni e anni di frustranti lavori svolti, anche con entusiasmo, solo in funzione dello stipendio, inizio a occupare il mio tempo facendo cose molto vicine a quelle che avrei voluto fare da grande.

Va bene, certo, non mi ci mantengo ancora, ma spero di farlo molto presto (e lo spera anche la mia commercialista, che passa il tempo a tirarmi le orecchie per la mia incapacità non di essere libera, ma di essere professionista).

Quando mi dicono eh, però hai avuto fortuna, avrei voglia di saccheggiare tribù e radere al suolo villaggi. La fortuna è quella di Gastone Paperone, che si china ad allacciare la ghetta e trova un portafogli colmo di dollari. La fortuna è quella della ragazza della porta accanto che accompagna l’amica a un casting e viene scelta come testimonial planetaria di una campagna pubblicitaria fichissima (NdR storia che, tra l’altro, fa parte della mitologia di quasi tutte le top model, pensaunpo’).

La fortuna è quando a prescindere da merito, impegno, fatica, dolori, lacrime, porte in faccia, le faremo sapere, ti viene dato qualcosa.

In pochissimi hanno davvero fortuna e, tra questi pochissimi, non ci siamo né io né te.

Siamo una generazione fondata sullo speriamo. In questi giorni speriamo addirittura che ci diano un governo che finalmente possa indicarci come continuare a morire ammazzati. Speriamo e stiamo invecchiando. Facciamo progetti sperando, conviviamo sperando, figliamo sperando.

La sola consolazione è che abbiamo imparato la leggerezza e che, mai come ora, l’ironia sembra essere epidemica.

Dicono che toccato il fondo, si inizi a risalire.

Speriamo.

Speriamo.

Chi vive sperando, muore cagando! Lorusso, isoletta dell’Egeo che non conta un cazzo, 1941.

Nel frattempo

I racconti sul precariato di un vecchio concorso di Zop sono diventati un meraviglioso ebook, che potete scaricare gratuitamente dal sito di CastelloVolante, dal 1° luglio.

Dentro ci trovate anche il mio “SSP: Scuola di Specializzazione per Precari”.

Il 9 luglio, la Stiletto Academy sarà a Roma, all’Accademia L’Oréal di piazza Mignanelli, per l’evento Stiletti Romani.

Le iscrizioni (gratuite) sono aperte qui. Vi aspettiamo!

Stiletto Academy

Ho cambiato vita ed è cambiato anche il blog.

Sono diventata più saggia e sentimentale, vado in palestra, sono dimagrita senza volerlo, non prendo più i treni tutte le mattine, sono una libera professionista e non più una dipendente, ho una socia in affari bionda, creo il caos nella vita di amori e amici (questo l’ho sempre fatto, ma adesso lo faccio a tempo pieno), bevo meno caffè, ma lo bevo più buono, scrivo di più, dormo di più, non parlo quasi mai al telefono, ho trasformato la camera verde della casa nuova nel mio ufficio, ho ritrovato vecchi amici, sto provando ad aggiustare le cose.

Ho tanti progetti nuovi e un cassetto pieno di altre idee.

Il primo progetto neonato è la Stiletto Academy, che è quella meravigliosa cosa per cui due donne brillanti decidono che hanno voglia di insegnare ad altre donne a sorridere della vita e a sentirsi le femmine che hanno sempre sognato di essere. Tutto sui tacchi a spillo.

Inauguriamo l’agenzia sabato prossimo, il 26 febbraio, a Milano, con un workshop su tacco 12, il 12camp, un pomeriggio di lezione sui tacchi, di consigli sul portamento, di benessere, di aperitivi e di ricchi premi e cotillon.

Le iscrizioni sono già sold out, ma potete seguire l’evento in diretta streaming dalla pagina di facebook.

E il resto ve lo racconto poi.

Adesso devo indossare tacchi e mantello e tornare a salvare il mondo.

La scelta

Domani sarà il mio ultimo giorno di lavoro a Venezia.

Per iniziare a riconquistare pienamente il senso della mia vita, ho preso la drastica decisione di abbandonare un impiego dipendente, che non mi rendeva pienamente felice, e iniziare a lavorare a tempo pieno sui alcuni folli progetti.

L’obiettivo finale è, ça va sans dire, smettere di lavorare per sempre.

Che crepino tutti i lupi!