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Come nasce una mamma

Fino a un paio di anni fa, non avevo mai immaginato che un giorno avrei avuto un figlio.
Non era nei miei progetti, un po’ perché ho sempre avuto l’indole da Erode, perennemente a disagio con gli esseri umani in miniatura, e molto perché ho cercato a lungo e a fatica la mia identità, me stessa, in innumerevoli viaggi, lavori, amori, e pagine scritte e lette.
Un paio di anni fa sono stata felice per la prima volta, la prima in tutta la mia (abbastanza) lunga esistenza; felice davvero, senza frustrazioni professionali, senza paura del tempo che passa, senza patimenti sentimentali, senza fisime sul mio aspetto fisico, senza il terrore di non riuscire ad arrivare a fine mese. E allora è arrivato, il desiderio, il bisogno di creare, finalmente, una storia in carne e ossa, un libro di cellule e DNA, una vita nuova.
La mia è stata una gravidanza serena e facile, nonostante l’età, perché essere una “mamma over” ha i suoi lati negativi, nei numerosi esami, nell’apprensione, negli stupidi volantini del Fertility day che ti ricordano che le ovaie hanno una scadenza, nei tempi di recupero più lenti e nel lavoro, che con l’età diventa più pieno di responsabilità e più facile da perdere.
Durante i mesi di attesa, non ho mai immaginato l’aspetto di mio figlio, non ci sono mai riuscita, ma mi sono sorpresa ad amare il mio corpo che cresceva, che si moltiplicava, che incubava.

Ero una donna incinta, ma sempre io, concentratissima sulla mia professione, sulla pianificazione dei mesi futuri, sui miei impegni, gli affetti, i gatti, la palestra, il parrucchiere, i miei libri e le serie tv, il tempo, scandito con una placidità ormonale da manuale.

Ho iniziato il travaglio all’alba e partorito Alessando alle 15:08, dopo un’espulsione lunga e dolorosa, perché il piccolo aveva una mano sul viso, in una di quelle pose buffe che ripete spesso e che lo fanno già sembrare un piccolissimo, minuscolo adulto.
Quando me l’hanno appoggiato sulla pancia, dopo l’ultima spinta e le grida che hanno sentito tutti, anche in reparto due piani più su, quando, dicevo, me l’hanno messo sulla pancia, sporco, fragile, violaceo, avvolto in un telo verde e anonimo, lui ha aperto appena gli occhi e il tempo si è fermato.
Non per metafora.
Il mio tempo, la sua percezione, lo scorrere, il tictac si sono bloccati di colpo. Le ore duravano minuti, i minuti duravano ore, c’era il giorno e la notte e poi la notte e poi il giorno e tutto era nella nostra bolla, io e lui, il mio terrore e il suo stupore, i miei sorrisi e i suoi sguardi, le sue gambine magrissime e i miei capelli sporchi, l’emozione e l’ansia, la tenerezza infinita e il mal di schiena, i capezzoli dolorosi e i pianti disperati, l’odore – mioddio! – l’odore di bimbo, la sensazione di essere vuota, a metà, di aver recuperato il mio corpo, ma di aver perso potenza.
Sono stata dimessa in anticipo e sono rientrata a casa mia due sere dopo.
Appena ho messo piede nella mia camera da letto, sola, mentre il pupo riposava nella navicella del passeggino in salotto, mi sono seduta sul letto e ho pianto. Ho singhiozzato moltissimo. Perché mi è stato chiaro, con una spiazzante lucidità, che la vita che avevo vissuto fino ad allora, fino alla corsa in ospedale, si era conclusa.
Non ho pianto per tristezza o disperazione, ma per quella dolce e malinconica nostalgia che si prova quando finisce un viaggio bellissimo e lungo, in cui ti sei divertito e sei cresciuto, ma che sai che non poteva e non doveva durare ancora.

C’è un momento in cui nascono i figli e uno in cui nascono le mamme. Il mio è stato lì, quando ho messo piede nel mondo prima di lui e mi sono accorta che i confini erano cambiati, che gli oggetti avevano un nuovo significato, che i miei sensi erano tesi verso un essere umano che non sono io, che il mio tempo non mi apparteneva più, ma era diventato nostro, come nostro era stato il mio corpo per quei lunghi mesi passati.

Ti raccontano che esiste un istinto materno, che l’amore per un figlio è a prima vista. Quello che io ho capito è che l’istinto non ha a che fare con l’amore, ma con il senso di protezione. L’amore, il sentimento, arriva dopo, si insinua subdolo in ogni poro e prende il posto della paura e del senso di inadeguatezza.
I figli appena nati spaventano, perché non li capisci, perché resti sveglia anche due giorni e due notti per controllare che respiri mentre riposa, perché non sai se piange perché ha fame, freddo, caldo, noia, terrore, perché alcuni gesti non ti vengono istintivi, perché sei impacciata mentre lo cambi o lo lavi le prime volte, perché quando rimetti piede fuori casa col passeggino hai ancora male in ogni centimetro di muscoli e ossa e senti che non ce la farai mai a difenderlo da tutto, dal clima, dalla città, dall’umanità.
E invece poi ce la fai.
Lo difendi e lui cresce. Lui cresce e tu lo capisci e iniziate a dialogare a piacervi a riconoscervi.
Una mamma nasce quando si accorge che il tempo si è fermato, immobile, e poi è ricominciato ed è un tempo nuovo, che scorre per due cuori che un tempo battevano nello stesso torace.

Alcune mamme nascono prima di avere figli, altre in ospedale, quando viene reciso il cordone, altre ancora più in là, solo quando i piccoli cominciano a parlare o a camminare, e altre non lo diventeranno, ma vivono vite degne e felici.

Poi ci sono le mamme come me, che non l’avevano immaginato mai, che nascono piangendo abbracciate a un cuscino quando realizzano che le fini sono sempre inizi e che ogni volta che termina un viaggio si ha un bagaglio più grande e pieno per l’avventura successiva.

Figlio mio amatissimo

Il segreto, figlio mio, sta tutto nel saper contare. E io sono sempre stata brava a contare, le biglie di vetro, i vestiti delle Barbie, gli amici invitati alle feste di compleanno, i giorni che mancavano alle vacanze di Natale, i voti a scuola, i minuti di ritardo dei treni, le calorie, le pagine dei libri che avevo già letto e quelle che avevo già scritto, i secondi che riuscivo a stare in apnea sotto l’acqua del mare, i passi per raggiungere la casa di chi ho amato, gli esami che mancavano alla laurea, i giorni di ferie accumulati, le serie di addominali, i risparmi per partire in quei viaggi senza biglietto di ritorno, le lettere di carta ricevute dalle amiche, le paia di scarpe che non entravano più nella scarpiera, i bicchieri di vino per riuscire a restare ancora in piedi.
Ho contato tanto nella vita, da quando i numeri hanno iniziato ad avere valore, e quando i giorni di ritardo sono diventati sei, sette, otto, ho iniziato a contare per te.

Ho contato le settimane, i giorni, i mesi, i chili presi, le gocce di vitamine, le ecografie e le vasche in piscina che facevo sempre più lentamente. Ho contato i battiti, i singhiozzi, i tuoi calci, le volte che rispondevi alle fusa dei gatti appoggiati sulla pancia e quelle altre che sembravi addormentato da così tanto tempo.
Ho contato le contrazioni, le prime leggere, impercettibili, con il sudore freddo sulla schiena e la paura e l’entusiasmo, ho contato i minuti, mentre gridavo china sul lettino della sala parto, e le ore, le spinte, infinite, i respiri, le grida, le lacrime.
Ho contato le dita delle tue mani e dei tuoi piedi fino a farmi venire mal di testa, il numero delle lunghissime poppate, il tuo peso che cresceva un grammo alla volta, i centimetri delle tue gambine magre, i body avuti in regalo, i giorni delle visite mediche, i minuti per sterilizzare i tuoi oggetti, quelli per tirarmi il latte, quelli di sonno che mi concedevi prima di tornare violentemente a vivere sveglio, sveglissimo.
Ho contato i tuoi sorrisi perfetti, fino a perderne il conto e a perdermici dentro, le carezze leggere che mi hai dato per sbaglio, sgranando gli occhi sorpreso, gli oggetti che piano piano hai afferrato, le volte che ti sei toccato da solo i piedini, i ciucci che hai voluto e quelli di cui non vuoi sapere niente.
Mi sono messa a contare ogni momento della tua vita, perché i numeri mi aiutano a stare ancorata alla terra, perché mi ricordano che c’è più vita di quanta non ce ne sia mai stata, che non c’è tempo per le delusioni, per perdersi nei progetti andati a male, nelle cose perdute. I numeri mi aiutano a farti essere, e tu sei qualcosa che non riuscivo a immaginare, potente, fragile, spaventosa e bellissima. Tu sei milioni di cellule perfette messe insieme, cromosomi che mi somigliano, sei il primo e l’ultimo pensiero, sei lo zero e l’infinito. Tu sei l’innamorato che non si può dimenticare mai.

Il segreto, figlio mio amatissimo, è tutto nel saper contare.
E tu potrai contare tutta la vita, tutta, su di me.

Libri in attesa: Le ragazze di Emma Cline

-Che hai fatto in tutti questi mesi, Dania?
-Sono andata a letto presto. Ah, e ho letto tanti libri.

Avevo immaginato una gravidanza diversa, piena di progetti portati a termine, viaggi, cose da fare e persone da vedere perché poi non avrò più il tempo di, lavori accumulati per guadagnare il più possibile, soggetti da completare e spedire agli editori per assicurarmi di non essere dimenticata troppo presto. Non ce l’ho fatta. Ho scritto e pubblicato il mio ultimo romanzo durante i tre mesi di nausee, ho passato una bellissima estate al mare a non fare assolutamente nulla, ho lavoricchiato, ho visto amici, ho fatturato quello che ho potuto, sono ingrassata, ho preparato il nido, sono ingrassata un altro po’ e lo sto ancora facendo.
I libri mi hanno fatto compagnia nelle giornate lunghissime in cui non potevo correre/saltare su un aereo/fare sforzi/bere vino, alcuni divorati in un pomeriggio, altri trascinati a lungo in giro per i caffè della città, altri ancora abbandonati dopo poche pagine.

Vi racconto quelli che più hanno alimentato sogni e incubi di queste notti lunghe, sperando che vi venga voglia di leggerli o di non leggerli mai, perché così dovrebbe funzionare con le storie: non tutte devono essere per forza vissute da noi impavidi ed esigenti lettori.

Pronti per la mia (breve, lo giuro!) lista? Cominciamo.

Le ragazze

Sono una lettrice snob e come i miei simili ho un’avversione per i successi annunciati, mi provocano un dolore quasi fisico, simile all’orticaria e all’alluce che si schianta contro il bordo del divano. Se lanci un romanzo dichiarando che è “il libro dell’anno” e magari siamo al 6 gennaio e non l’ha ancora letto nessuno, mi fai venire voglia di non acquistarlo e sfogliarlo mai mai mai.
Le ragazze di Emma Cline (Ed. Einaudi, 18 euro) era destinato a essere uno dei titoli che non avrebbero mai trovato rifugio sui miei scaffali, esordio di un’autrice poco più che ventenne “taggato” già in fascetta come capolavoro, piazzato strategicamente nei posti migliori delle mie librerie di fiducia e consigliato da tutte le persone del cui giudizio mi fido pochissimo. E invece…

Evie, fresca adolescente annoiata, figlia di una madre benestante e new age e di un padre patetico che lascia tutto il poco che ha per un’amante più giovane, è in cerca di attenzioni. I suoi quattordici anni le calzano male come un vestito preso in prestito e ha una fretta molesta di emozioni, cambiamenti, amore. I giorni si susseguono uguali e noiosi come il ritornello di una canzone brutta, fino a quando non incontra le “ragazze” in un parco cittadino,  capelli lunghi, vestiti corti, sfacciate, terribili e si lascia trascinare da loro in quella che le sembra essere la vita vera. Finisce al ranch, una comune tra le colline, zozza e libertina come i meravigliosi anni ’60 ormai al tramonto, guidata dal carismatico Russell, wannabe musicista e improvvisato santone che gode della venerazione di molti seguaci. La storia è un déjà-vu, se come me avete visto in una sola settimana tutte le due stagioni di Aquarius e avete googolato tutto lo scibile su quelle simpatiche canaglie di Charles Manson e i suoi scagnozzi: il crescendo di rabbia e frustrazione, il delitto famoso, le donne che eseguono e il guru che fa da mandante, la droga, il sesso, il sangue.
I fatti sono quelli della triste cronaca, quello che colpisce, però, è il punto di vista, il racconto di un’adolescenza da cui forse non ci emancipiamo mai, le sensazioni della fatica e dello stupore di vivere che subiamo a quindici anni e che forse segnano davvero tutto il resto della nostra esistenza.
Ho rivissuto emozioni (spesso sgradevoli) che avevo rimosso, così attenta come sono stata a seppellire il disagio provato ere geologiche fa di non essere più bambina e non essere ancora adulta.
Ho gradito meno la retorica che ogni tanto affiora sul bisogno delle donne di seguire un uomo comunque e ovunque, ma ho cercato di circoscriverla al tempo storico in cui è ambientato per la maggior parte il romanzo.
E poi, Emma Cline scrive dannatamente bene!
Siamo sicuri che abbia solo 24 anni? Che il traduttore non sia intervenuto per rendere più gradevole un testo acerbo? Che non ci sia troppo cesello di un bravo editor, dietro? Perché quando incontro penne così felici, anche se la trama non mi toglie il fiato, non riesco comunque a staccare gli occhi dalle righe (e ho bisogno di tanto zucchero per rimettere in sesto la mia autostima).
A quell’età il desiderio era spesso un atto di volontà” e “c’era solo la soffocante, perenne presenza di me stessa, una compagnia stupida e disperata” sono solo un paio delle frasi che ho sottolineato, che riassumono perfettamente il mio pensiero su quel periodo della vita che non ho amato per nulla (povero figlio mio, quando ci arriverai!).

Un romanzo che consiglio, scorrevole, potente, con una storia non troppo originale, ma di sicuro gradevole.
Se il mondo fosse un posto giusto, l’autrice dovrebbe aspettare almeno la mia età per pubblicare un altro bel libro (e non farmi sentire ormai troppo vecchia).

Il prossimo anno non avrò paura

Tra un mese e mezzo (o poco più) diventerò una mamma.
Già questa mi sembra una novità enorme, emozionante e terrificante, dell’anno che verrà.
I dodici mesi appena trascorsi mi sono sembrati lunghissimi, infiniti, faticosi come una strada in ripida salita e allo stesso tempo veloci, effimeri, leggeri.
Sono stata bene, quasi sempre, nel corpo, nella mente e nel cuore. È stato un anno adulto, con il calendario alla mano, le scadenze, le idee, i programmi, le analisi del sangue e delle urine, i riavvicinamenti e gli addii per sempre, le ansie, gli entusiasmi, l’azzardo, i rischi, i ritorni a casa.
Sono soddisfatta di quello che ho fatto, delle scelte che ho preso, dei lavori che ho concluso, anche se inizio a soffrire la mia incapacità di arricchirmi, la mia poca abilità nel vendermi, il mio appassionarmi a progetti bellissimi, ma non remunerativi, l’aver scelto di vivere di arte e, per questo motivo, arrivare sempre con l’acqua alla gola a fine mese. Mi sarebbe servita un po’ di fortuna in più, perché è sempre la fortuna il tassello che manca, e qualche santo in paradiso, che potesse presentarmi le persone giuste, gli ambienti giusti.

È stato un anno bello, pieno di amore e lacrime, di idee, amici, viaggi in treno, libri scritti e libri letti, di film e telefilm, di bagni a mare, di piatti di pasta, di sonno e insonnia, di promesse che dicono “per sempre”. Un anno in cui sono riuscita a distinguere il fuori e il dentro, il mondo esterno e interno, in cui ho avuto speranza quando tutto sembrava diventare buio.
Il prossimo sarà l’anno dell’incertezza, della novità, del dubbio, dell’emozione. Spero di essere all’altezza. Spero di riuscire a scrivere e continuare ad avere la fiducia di editori, librai, lettori. Spero di riuscire a ridere, quando tutto mi sembrerà difficile. Spero di riuscire a rimanere a galla, quando le onde si faranno troppo alte. Spero di essere amata e di amare ogni giorno.

Spero di essere ancora felice.

Il prossimo anno non avrò paura.

Buon 2017!

Buon 2017

 

Il peso delle parole non dette

In questi mesi avrei voluto scrivere tante cose, essere l’ennesima voce che commenta e racconta, dire la mia su quello che accadeva (fuori e dentro), ironizzare sulla condizione in cui mi trovo, prendere parte, sentenziare, argomentare. Eppure, di fronte alla pagina bianca, mi sono sempre detta che non era ancora il momento giusto. Ho scritto troppo, negli ultimi anni, di cose personali o meno, per lavoro, per scelta, per soldi, per disperazione, non sempre per necessità, ma molto spesso per obbligo.

Mi sono sentita, negli ultimi mesi, come se dovessi reintegrare i liquidi dopo un’enorme sudata di parole. Avevo bisogno di ricaricarmi, nonostante il riposo mi facesse sentire in colpa (chi di voi corre, lo capisce. Quando non puoi farlo per far riprendere i muscoli, vivi quella strana sensazione di stare facendo un torto a te stesso, anche se, invece, ti stai volendo bene).

Ho pensato moltissimo e letto e parlato e cantato tanto, però. Ho fatto progetti. Ho carezzato la pancia e i gatti. Mi sono guardata da fuori e sono riuscita a intuire i miei confini, gli spazi di manovra, le possibilità di crescita e quello che invece non potrà funzionare, perché è troppo tardi o perché non è mai stato il momento giusto.

Stamattina mi è tornata l’urgenza di tracciare righe, vuoi perché il libro nuovo dovrà essere a un buon punto quando diventerò mamma (e il mio tempo sarà monopolizzato da cacca, nanna, poppate, sorrisini e amore incommensurabile), o perché le dita sono finalmente pronte a percorrere nuovi chilometri.

Mi ha fatto bene non dire per un po’, rende tutto più necessario e ragionato. Ho capito che devo farlo più spesso, un passo indietro dalla valanga di opinioni.

Auguro anche a tutti voi di avere il vostro lungo periodo di silenzio in cui ritornare a essere in forma, mentalmente, spiritualmente.

Non abbiate sempre fretta di esprimervi, risucchiati in una interrotta, travolgente e angosciante conversazione: a volte sono le parole non dette a pesare di più.

E considerati i chili che ho preso negli ultimi sei mesi, non mi sembra nemmeno poi tanto una metafora.

Donnissima in Puglia

Con il tour pugliese, termina, per il momento, la promozione di Donnissima (la mia panzona ormai è troppo grande per continuare a girare come una trottola).

Vi aspetto stasera alle 20 a Taranto.

Donnissima a Taranto

Domani, venerdì 11 novembre, sarò invece a Rutigliano (Ba).

Donnissima a Bari

E sabato 12 sarà il momento di Andria, ospite della rassegna “Le amiche per le amiche”.

Vi aspetto numerosi, per abbracciarsi, ridere, mangiare taralli e parlare di libri. A tutti i partecipanti, darò i numeri vincenti del lotto.

Donnissime a Milano

Amiche e amici milanesi, se la “fescion uik” non vi ha risucchiato anche l’anima, ci vediamo domani, venerdì 23 settembre, alle 18.30 al Mondadori Megastore di via San Pietro all’Orto per chiacchierare di Donnissima, il mio nuovo favoloso romanzo.

Insieme a me, Mafe De Baggis, che in gergo chiamiamo una “femminona”.

Vi aspetto tutti per festeggiare insieme. Segnatelo subito sulla Smemo!

Presentazione Donnissima

E se siete curiosi di sapere di cosa parla il libro, ve lo racconto in sei minuti in questo video.

Donnissima

«Certi amori sono come la frittura, il loro odore ti rimane addosso per moltissimo tempo.»

Oggi esce il mio nuovo romanzo, Donnissima, per l’editore Rizzoli.
È una storia che avevo in testa da più di tre anni, che ho pensato, sognato, immaginato, raccontato agli amici per così tanto tempo che non credevo sarebbe mai diventata in carta e ossa.

La protagonista è Enza Caruso, ragazza napoletana che pulisce le scale in un elegante condominio di Milano. Pulire è sempre stata la sua vocazione, la sua missione e la sua più grande passione. Alle prese con un divorzio complicato, una madre che frigge pure l’anima, le amiche che insistono perché si diverta più che può, si ritrova a dover risolvere un mistero: dal “Palazzo” cominciano a sparire tutti i cani carlini. Sarà stato un colpo del Cartello delle colf sudamericane per convincerla, finalmente, a mollare il lavoro?

Dopo cinque anni intensi e appassionati con l’editore Newton Compton, ho deciso di provare una nuova avventura allontanandomi dal genere rosa e raccontando una storia più agrodolce, piena di femminilità brutale, di fragilità maschile, di Napoli, di Milano e di ironia.
È un libro che amo profondamente e che spero vi faccia divertire davvero. Perché Enza ha tutte le carte in tavola per diventare la nostra migliore amica.

Jamme, che aspettate? Accattatevillo. Anche in ebook.

Donnissima

La (più) grande avventura

cicogna

Questo doveva essere l’anno del mio lungo viaggio in Messico. Invece l’unica a partire è stata la cicogna.
Lo so, lo so cosa state pensando: nemmeno io me lo sarei aspettata da me, mai mai mai nella vita.
Eppure, sono incinta.
E in barba ai burocrati che vogliono farci credere che a una certa età è sbagliato essere incoscienti, il papà (autore del bellissimo disegno) e io siamo felicissimi perché non poteva capitarci in un periodo migliore. Doveva succedere adesso, mo’, ora. Giusto in tempo per dare un alibi al mio fallimento della prova costume.

Lo sbarco sulla Terra è previsto a metà febbraio. Ed è un maschietto (poteva essere altrimenti, il figlio di Malafemmena?).

Ci stiamo preparando.
Sarà davvero la più grande avventura.

Il fantasma della donna che faceva il vino

Come mai mi piace così tanto il mondo del vino?

Se non fosse ancora così evidente, questo video vi fa capire perché negli ultimi anni ho dedicato così tanto tempo ed energie (e sacrificato un po’ della mia prova costume) per girare l’Italia visitando cantine e assaggiando vini. Ci sono storia, passione, fatica, entusiasmo, vittorie, delusioni, promesse, speranze in un bicchiere di vino e nel luogo in cui viene prodotto.

Se non avete ancora progetti per i prossimi weekend, andate a visitare Nipozzano, nel Chianti Rufina, e fatevi raccontare di Leonia Frescobaldi, imprenditrice audace di più di un secolo fa, che ha saputo creare e gestire una tenuta enorme ancora in funzione. Ha anche progettato lei una cantina, perché non le bastava mica fare solo la moglie del marchese! Le hanno dedicato anche una bottiglia di metodo classico che è diventata la mia bollicina preferita (se riuscite ad assaggiarla, fatemi sapere cosa ne pensate).
Dicono che il suo fantasma vaghi ancora di notte, nella torre di Pomino. Se siete fortunati (e temerari) riuscirete a sentire i suoi passi sul tetto, quando fuori è buio.
A me è successo, credo di averla addirittura vista, nella penombra. ma non posso garantire che non sia stata opera del vino bevuto a cena.
Cin cin.

Sono pronta a nuovi ricordi

Ti capita mai, a distanza di anni, di metterti ad analizzare eventi e situazioni e, di colpo, capire, vedere tutto più chiaro di come fosse tempo fa? Scoprire di esserti preoccupato per le cose sbagliate, realizzare che mentre pensavi di essere quello forte, te la stavano invece mettendo nel didietro, o invece renderti conto che una fuga è stata in realtà la migliore scelta della tua vita? Comprendere, finalmente, che chi pensavi di aver fatto soffrire magari – che ne so – ti aveva raccontato un sacco di balle, che chi credevi ti avesse spezzato il cuore in realtà era la persone più sbagliata per te, che i lavori lasciati e quelli tenuti, per fame, per passione o per paura, ti hanno fatto comunque sopravvivere fin qui?

A me capita, negli ultimi tempi, di ripensare spesso al passato e di capirlo, una volta per tutte. Grazie a una canzone, a una chiacchierata, a un’intuizione, a qualche pagina letta per caso, alla fatica mentre sudo in palestra, agli abbracci delle persone vecchie e nuove, ai film.
E quasi sempre è consolatorio capire le cose.
Anche scoprire di essere stata tradita.
Anche accorgermi di aver perso treni che non torneranno più.
Anche accettare di non essere stata all’altezza delle mie occasioni.
Perché, se riesco a guardare il bello e l’orrore con il distacco freddo di uno scienziato, vuol dire che l’ho superato, che almeno quei fantasmi lì sono stati spazzati via dalla soffitta del mio cervello e del mio cuore.

Mi capita di fare pace con il passato e la cosa mi fa stare bene. Sono pronta a nuovi sbagli, a nuove vittorie, a nuovi inizi, a nuove fughe e a tanti nuovi ricordi.

Scalo libri alla libreria Acqua Alta di Venezia.
Scalo libri alla libreria Acqua Alta di Venezia.

Perché non dovresti mai leggere libri (nemmeno se costretto)

In Italia si legge poco, pochissimo.
Una famiglia su dieci non ha nemmeno un volume in casa, poco più di un terzo della popolazione ha sfogliato un libro l’anno scorso e la metà dei ragazzini sotto i 17 anni non ha letto nulla al di fuori dei testi scolastici.

È allarme! È analfabetismo di ritorno (ma se n’era davvero andato?)! È panico tra gli addetti ai lavori, le case editrici, gli intellettuali, gli insegnanti! C’è terrore tra gli scrittori (soprattutto i wannabe).

Eppure, a rigor di logica, se la maggior parte degli italiani non legge, non saremo forse noi, la minoranza, a sbagliare? È davvero così importante amare i libri? E se fosse solo un complotto radical chic?

Ci ho riflettuto a lungo e ho tratto le mie conclusioni. I libri sono un pericolo. Ecco perché non dovresti mai leggerli:

Leggere fa perdere un sacco di tempo.  Sfogliare un libro la sera vuol dire non poter stare immobili davanti alla tv a fare zapping, leggere in metropolitana o sull’autobus significa rinunciare alle partite di Candy Crush, leggere in treno è sacrificare le telefonate a voce altissima, i sonnellini, il fissare il vuoto. Leggere prima di andare a dormire ti toglie tempo per lamentarti della giornata col tuo partner. Leggere in spiaggia ti distrae dalla tintarella. Leggere mentre sei in coda (dal medico, in posta, in aeroporto) ti impedisce di mandare mille messaggi vocali su Whatsapp. E chi ce l’ha il tempo per leggere?

I libri si riempiono di polvere.  E non saprei dove metterli. Le mensole del salotto mi servono per le bomboniere dei matrimoni degli amici e per i decoder. Gli ebook? No, ma non sono libri veri! Piuttosto allora non leggo proprio. E poi i libri costano e io voglio cambiarmi l’iPhone, appena esce il prossimo modello.

I libri fanno apprendere cose nuove. Ma ci rendiamo conto? Ho finito le scuole dell’obbligo. Ho preso anche una laurea. Secondo te, devo imparare altro? Sto a posto così!

I libri fanno perdere i pregiudizi. Ti fanno il lavaggio del cervello. E se leggi poi è un attimo che inizi a pensare che siamo tutti uguali, che abbiamo gli stessi diritti, che certe cose andrebbero cambiate, che esistono altri punti di vista. È già un mondo sull’orlo del baratro, senza farsi venire tutte queste strane idee. Non si stava forse meglio secoli fa, quando alle donne e ai poveri era impedito di imparare a leggere e scrivere?

Per leggere c’è bisogno di concentrazione. E io non amo concentrarmi durante il tempo libero (al massimo mi concentro nella guida in mezzo al traffico per arrivare al centro commerciale affollato).

Leggere fa vivere altre vite. Ed è già complicato viverne una!

Leggere fa sognare. E i sogni sono pericolosi, perché ti fanno venire il desiderio di essere migliore, di cercare di più (e poi inizi a lamentarti se ti porto ogni domenica al centro commerciale).

Leggere ti fa innamorare. Non una, ma cento, mille volte. E, diciamocelo, questa è una cosa un po’ da zoccole.

I personaggi dei romanzi che hai amato rimarranno tuoi amici per tutta la vita. Grazie, ma io sono a quasi cinquemila su Facebook e già mi sembrano troppi.

Libreria Acqua Alta di Venezia
Libreria Acqua Alta di Venezia

La verità sul tempo (e sul vino)

«Tuo nonno diceva che il gusto di questo vino gli ricordava le camere delle donne», disse, chiudendo gli occhi e assaporando il suo bicchiere.
«Come? Cosa voleva dire?»
«Le stanze delle donne sono luoghi pieni di sogni e di segreti, misteriosi, ma accoglienti. Hanno un profumo dominante, ma riesci a cogliere in giro tanti altri piccoli aromi, sulle lenzuola, nell’armadio, nel cassetto dei cosmetici. Appena ci metti piede, ti stordiscono leggermente, ma dopo che vieni catturato dalla loro voluttà, non hai più voglia di andartene».
«Ci sentiva tutto questo, in un bicchiere di vino?»
«C’è così tanto, cara, in questo bicchiere. C’è la terra, che era qui prima di noi e ci sopravvivrà, che dà frutti solo se la curi bene e la rispetti, c’è l’aria, che porta con sé gli odori della valle, del lago, delle montagne in lontananza, ci sono la pioggia e il sole e le mani di chi cura l’uva, c’è l’acciaio, il legno e il vetro, ci sono speranze, paure, traguardi, dubbi. C’è amore, dedizione e attesa. Soprattutto l’attesa, perché il bicchiere di vino perfetto è quello che arriva se hai saputo aspettarlo, senza stancarti, senza lasciar perdere, senza imbrogliare. È tutto lì il segreto di un grande vino: non avere paura del tempo».
«Allora non può diventare il mio lavoro».
«Perché dici così?»
«Perché io ho il terrore del tempo».
«Ragazza mia, ce l’hai perché nessuno ti ha mai detto la
verità».
«E quale sarebbe?»
«Che il meglio non è alle tue spalle, ma deve ancora venire».

(L’amore per il vino e la concezione del tempo. Tratto dal mio romanzo
A noi donne piace il rosso, 2014, ed. Newton Compton)

Le vigne del castello di Nipozzano.
Le vigne del castello di Nipozzano dei Marchesi Frescobaldi.